Due grandi nomi del teatro contemporaneo europeo sincrociano nuovamente in una
produzione del Teatro del Giglio di Lucca, per la versione italiana di Winter. Luno è quello di Jon Fosse, considerato il massimo
scrittore e drammaturgo norvegese vivente, vincitore nel 2010 del prestigioso
premio The International Ibsen Awards.
Laltro
nome è quello del lituano Oskaras
Koršunovas, fondatore dellOKT (Oskaras Koršunovas Theatre), teatro
indipendente inaugurato nel 1998, specializzato nella mise en scène di testi classici in chiave contemporanea e di testi contemporanei
in chiave classica.
Koršunovas ha già allestito una edizione lituana di Winter, in versione operistica, con le
musiche di Gintaras Sodeika. Sodeika è anche lautore della colonna
sonora di questo allestimento italiano. Nellopera di Fosse la componente
musicale è fondamentale: nel testo, più che di struttura narrativa, si può
parlare di filo conduttore melodico. Il regista lituano di ciò è ben consapevole,
tanto da comporre una vera e propria partitura formata da dialoghi serrati,
frammentati, scarni, in contrapposizione a pause frequenti. Ne discende una
melodia: un curioso gioco, sia di specchi che di ruoli, grazie al quale il
potenziale attoriale dei due protagonisti può essere espresso (o rimanere inespresso).
La chiave del successo dello spettacolo è nelle mani degli attori.
La storia di Winter
è il diagramma di un simmetrico intreccio fra una parabola discendente e
una ascendente, corrispondenti allevoluzione delle vite dei due protagonisti:
una “lei” che risorge e un “lui” che sprofonda.
Un momento dello spettacolo © Guido Mencari Fin
dalle prime battute, lo spettacolo va
letto fra le righe del “non detto”, in un indefinito presente. Lo spettatore si
trova davanti una terra di nessuno, priva di una connotazione spaziale o
temporale precisa, al confine fra il reale e il surreale. Ci troviamo nel parco
pubblico di una città o in una stanza dalbergo? Le luci di Marco Minghetti
sono crepuscolari; lo spettatore è immerso in una atmosfera popolata da ombre.
A prevalere è il biancore, quasi spettrale: un vistoso drappo di un lenzuolo
che da sinistra in alto scivola su un letto matrimoniale; una panchina al
centro del palco e un altro paio accatastate dietro; dei lampioni daltri tempi
e unaltra serie di luci indefinite che creano un effetto di un notturno
perpetuo.
Nellambiguità
di una conversazione che è diretta verso il pubblico o verso un interlocutore
invisibile, spiaggiata su una panchina, una donna appariscente dal marcato
accento dellest, interpretata dalla lituana Ruta Papartyte, sfonda immediatamente la quarta parete invocando,
fra le imprecazioni, laiuto e le attenzioni di un uomo (o di tutta la platea).
Non sappiamo chi sia. Potrebbe sembrare una prostituta sullorlo della
disperazione e in piena crisi di nervi, ma di questo non cè alcuna certezza.
La giovane adesca così, con una breve conversazione surreale, un giovane uomo
daffari, bello e ammogliato, interpretato da Marco Brinzi. Tra due nascerà una curiosa relazione, destinata a
ribaltarne i ruoli: la giovane donna si rivelerà essere fredda e riflessiva,
alle prese con i deliri amorosi di un uomo in rovina, distrutto dalla passione
per lei.
Lo spettacolo è incentrato su una serie di “giochi”,
più o meno sottili, che innescano la dialettica drammaturgica. Da un lato, il continuo
gioco dei ruoli fra i due amanti, fra arance che rotolano sul palcoscenico e
cambi di scena danzati nei quali, in pochi balzi, gli attori modificano lo
spazio trasformandolo da parco in albergo, e poi ancora di nuovo in parco.
Dallaltro, il gioco del regista e degli attori con lo spettatore, con
unesilissima quarta parete, nel segno di una continua ambiguità fra illusione
e realtà: di una poetica dellindefinito, tipica di tutto il teatro di Fosse.
La coppia Brinzi-Pappartyte è disinvolta al punto da
indurre Koršunovas a rivisitare Winter
in chiave psicologica, con largo spazio agli stati danimo dei protagonisti,
nel segno di un disgelo delle emozioni. È, il suo, un teatro dei particolari,
nel quale la prossemica degli attori è curata nel minimo dettaglio (si pensi al
curioso uso che la Pappartyte fa dei piedi come fossero mani o addirittura
volti). La nuova coppia di personaggi, composta in maniera tanto rocambolesca, troverà la forza e
lincoscienza di darsi la possibilità di un futuro impossibile?
Dopo
appena quaranta minuti di spettacolo, quando levoluzione del dramma sembra
suggerire una timida risposta e si entra quindi in quello che pare essere il
cuore della narrazione della vicenda, siamo già al finale. Lo spettatore resta
sospeso nei suoi interrogativi, in uninsostenibile leggerezza dellessere.
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