Inevitabile
scrivere di Lehman
Trilogy come di unopera ultima, ulteriore
specificazione di una certa declinazione del concetto di “tardo stile”. Spero
non sia una facile suggestione ripensare questultima regia facendo scorrere
nel pensiero tante e tante immagini degli spettacoli di Ronconi, nel mentre a un tempo si pensa a come sarebbe stato il suo
prossimo Goldoni.
I
tre fratelli Lehman (Henry/Massimo De
Francovich; Emanuel/Fabrizio Gifuni;
Mayer “Bulbe”/Massimo Popolizio) nella
seconda parte dello spettacolo appaiono come spettri (celebre regia spoletina,
da Ibsen), coscienze critiche verso figli
(Philip/Paolo Pierobon, figlio di
Emanuel; Herbert/Roberto Zibetti,
figlio di Mayer) e nipoti (Robert/Fausto
Cabra, figlio di Philip), nello scontro tra un mondo nato poco dopo la
metà dellOttocento una mentalità, uno stile, unetica e i loro entropici
ribaltamenti. Un momento dello spettacolo (foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva) Parafrasando
laureo studio di Piero Sraffa, i
Lehman passeranno dalla produzione di merci (e di affari) a mezzo di merci alla
produzione di soldi a mezzo di soldi. Quella dei Lehman del resto e Ronconi
lo aveva detto è una saga (come a suo modo, solo per riferirci allaltro ieri
teatrale, quella dello Stoppard
della Sponda dellutopia), che Massini racconta in oltre trecento
pagine di notevole sapienza di stile e scrittura, complessità di stilemi e
cifre (anche in senso letterale), flussi di coscienza in forma di monologo interiore/esteriore
poiché declinato in terza persona (come, in Ronconi, già nel Pasticciaccio ma anche in Lolita, così da creare un “effetto ONeill/Strano interludio”) e commenti a mo di coro antico.
Ronconi
con lausilio del drammaturgo rende in due parti quello che nel testo è in tre
e crea uno straordinario concertato fra i personaggi, assecondato, come diremo
meglio più avanti, da una magnifica squadra, in particolare i quattro “moschettieri”.
Fin dallinizio tutti i personaggi appaiono in scena con le loro sembianze “della
vita reale”, con pochissimi interventi di trucco, primo segnale di un certo
effetto di straniamento (il sempre amato Brecht),
alimentato grandemente dalla discordanza tra letà (anzi: le età) che hanno
come personaggi e quella che hanno come attori.
In
particolare è lo Henry di De Francovich a suscitare leffetto più straniante: sapendo
che egli morirà a poco più di trentanni, la sua barba bianca sul volto di un
attore anziano, ancorché di bellaspetto, di fatto gli conferisce unimmagine
da patriarca quale simbolicamente vuol essere. Quando Emanuel invecchia, come
segno di questa mutazione egli ha solo un bastone e un leggero incedere
claudicante, ma è impressionante Gifuni nel sembrare vecchio rimanendo nelle proprie
sembianze e con la sua bella barba nera. E lo stesso, a suo modo, dicasi per
Mayer, al quale Popolizio, quando “Bulbe” è invecchiato, offre una magnifica
camminata “a singhiozzo”.
I
tre fratelli ma anche Philip indossano una tipica tuta con zip, sotto la
quale appaiono abiti borghesi. Un sincretismo che non solo sintetizza le loro
due anime quella proletaria e di piccolissimi mercanti legati alla terra,
prima, quella, alto-borghese, poi ma è parte di un filo rosso costante di
tutto questo spettacolo: più bello, ricco e
intenso nella prima parte, un po meno nella seconda. Il filo è quello della
atemporalità o della intemporalità, delle quali è segno scenico e simbolo
lorologio, à la manière di quelli
delle vecchie stazioni, che, seppur spostandosi lungo lasse della scena,
segnerà fino alla fine sempre la stessa ora. Un momento dello spettacolo (foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva) Del
resto lincertezza è un altro segno, a mo di leitmotiv, espressa concretamente quanto simbolicamente
dallequilibrista Solomon Paprinskij (un convincente e più maturo Fabrizio Falco), che sovente attraversa
la scena da sinistra a destra e viceversa, interagendo con precisione analitica.
Pareti monocrome grigio perla emanano a loro volta un senso di astrazione ma
anche di apertura verso linfinito delle possibilità combinatorie e
dellimmaginazione (un richiamo a Infinities?).
Il turbinio spazio-temporale, mai precisamente espresso, è soggetto a voluti e
ricorrenti sincretismi: i figli entrano in scena adulti e Herbert addirittura
con una gran chioma canuta, ma hanno sei o sette anni di vita. Tutto ciò crea un
effetto quasi comico, spesso perfino divertente.
Lehman Trilogy è vicino al più tipico
umorismo ebraico. Mayer/Popolizio un po gigione, ma con encomiabile sapienza, sembra
un eco dello schlemihl, così come Emanuel interpretato in modo impareggiabile nella lunga scena della richiesta di
matrimonio (alla maniera di Čechov).
Il
cambio di registro in primis etico
dai tre fratelli ai figli è assai sapientemente espresso da Pierobon, che fin
dallinizio dà a Philip i tratti aggressivi e un po trucidi della nuova, rampante,
cinica generazione, laddove altri Herbert sembra un tribuno meccanicamente comandato
e così appare, autorevole, la resa di Zibetti. Altri ancora Robert una
macchinetta impazzita (piuttosto buona la prova del giovane Cabra), dal volto e
dai gesti che potrebbero evocare certi stilemi da avanguardie storiche degli
anni Venti (à la Karl Valentin). Non memorabili i vari caratteri muliebri la
moglie di Philip, le mogli di Robert con i quali tuttavia Francesca Ciocchetti si misura con
carattere e proprietà.
“Midrashica”
narrazione, questa regia ultima del maestro, di un progressivo crepuscolo degli
dei, dopo che i Lehman avevano sguazzato nel Walhalla, con parole scritte che silluminano,
a cadenzare, attraverso la terminologia ebraica, i riti anche di passaggio,
come il Bar Mitzvah e le
ricorrenze, anche luttuose. Possibile declinazione, in quanto scritte, dei
cartelli brechtiani, ma anche possibile eco, in quanto luminose, di uno stilema
adottato da Bob Wilson (Einstein on the Beach, che debuttò nella
Biennale diretta da Ronconi). Un momento dello spettacolo (foto di scena di Attilio Marasco e Luigi Laselva) Ronconi
ancora una volta non si è fatto sfuggire la possibilità di vedere allopera una
squadra daltri tempi: i quattro interpreti principali lavorano come un
quartetto darchi, del quale lultimo arrivato Gifuni sembra far parte da tempo, tanto se la intende con i suoi
compagni darte. In particolare vorrei ricordare il battibecco tra Emanuel e
Henry, condotto dai rispettivi attori con notevole allure e un serrato ritmo da litania religiosa. De Francovich
allinizio non pare convincente, dimostrando poi
quanto il suo pressoché costante tono di voce sia funzionale
al carattere patriarchico, pacato, autorevole del suo Henry.
Popolizio
sfiora più volte la gigioneria, ma con classe comprovata evita lenfasi.
Pierobon ha una matura attitudine al physique
du rτle con il suo Philip, talora mefistofelico. Tutti hanno voci
autorevoli e non microfonate, mentre nella seconda parte ma non per il
quartetto vengono adottati microfoni funzionali a precisi effetti acustici. Oramai
ai gattopardi sono subentrate le iene, sinistramente rappresentate da due
caratteri (efficaci i loro interpreti), Pete Peterson (Raffaele Esposito) e Lewis Glucksman (Denis Fasolo). La fisiognomica di
questultimo evoca il Pinguino del Batman,
il ritorno di Tim Burton.
Il
lungo, secolare viaggio verso la notte è infine approdato nelle tenebre, con
ritmi da danza macabra.
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