Tong
Men-G,
il titolo dello spettacolo scritto
dallattore italo-cinese Yang Shi,
per la regia di Cristina Pezzoli, spiega
in sintesi perché lautore abbia scelto di raccontarsi attraverso questo lungo
monologo di due ore. Una locuzione che unisce curiosamente una «porta di
bronzo» a uno «stesso sogno». Yang Shi vorrebbe aprire il portone pesante del
titolo, sprangato, per ricongiungere persone distanti (o perdute nella memoria)
affinché facciano pace con il loro passato e si proiettino, insieme a una nuova
comunità di persone, alla ricerca di un futuro allinsegna dellintegrazione
culturale.
Tong Men-G è il primo
spettacolo, pensato e scritto sia in lingua italiana che in mandarino, prodotto
in Italia con un protagonista dorigine cinese. È unoperazione culturale, prima
che drammaturgica: il tentativo di un dialogo profondo con la comunità cinese,
radicatasi capillarmente in varie zone della nostra penisola, ma soprattutto
nella città di Prato, dove non a caso nasce lo spettacolo. Nello spazio Compost
della regista Pezzoli, dopo una gestazione di sette anni, ecco finalmente in scena
un lavoro dal forte sapore autobiografico, che ripercorre a tappe la storia di
Yang: nato nel 1979 a
Jinan, nel nord della Cina, e arrivato in Italia quando aveva undici anni.
Un momento dello spettacolo
© Ilaria Costanzo
Allinizio
il pubblico è immerso in unatmosfera da circo: Yang è una sorta dimbonitore
che invita giocosamente lo spettatore a interagire con lui. Lo spazio
dellazione performativa sallarga così dai confini del palcoscenico allintero
spazio del Teatro Fabbricone, comprese le gradinate dovè seduto il pubblico.
Uno dei diversi numeri di Yang (che in scena per tutto lo spettacolo sfrutterà
sempre la sua fisicità statuaria) consiste nel lanciare ripetutamente verso il
pubblico unenorme palla di polistirolo color oro, che rimbalza di nuovo fino a
lui.
Lattore
cinese, fasciato in una tutina intera dove sono stampati vari simboli,
immagini, luoghi comuni dellItalia e della Cina, sarà per due ore il mattatore
della scena, un Arlecchino sui generis traduttore
e traditore di due padroni molto esigenti e intransigenti: la Cina e lItalia.
Un momento dello spettacolo
© Ilaria Costanzo
Lintero
spettacolo è allinsegna della dualità: due sono gli universi culturali,
distanti sia geograficamente che culturalmente, come altrettante bandiere che
coabitano sulla scena. Due sono anche i contrastanti bagagli esperienziali di
Yang: linfanzia, vissuta in Cina, e la fase delladolescenza e della gioventù,
trascorsa in Italia. Due, infine, i capitoli in cui è suddivisa la scrittura
drammaturgica, se si esclude il prologo, preparatorio allo sviluppo dello
spettacolo.
Nella
prima parte Yang tira fuori da sacchi di riso i suoi effetti familiari: oggetti
diversi, vestiti e accessori che lattore indosserà, assumendo di volta in
volta le sembianze del bisnonno paterno eroe e martire della patria, della nonna
dai piedi spezzati, dellastuta trisavola abile commerciante di spaghetti, del
nonno materno chirurgo di scuola americana che ha dovuto subire pesantissime
umiliazioni sotto il regime di Mao
Tse-tung, del padre guardia rossa del regime e dello zio affetto dalla
sindrome di down. Nel racconto sono calate, attraverso videoproiezioni,
immagini di repertorio che documentano alcuni momenti salienti degli anni della
dittatura comunista, come le grandi adunate oceaniche o le repressioni
sanguinose: episodi che condizionarono nel profondo le vite degli antenati di
Yang.
Un momento dello spettacolo
© Ilaria Costanzo
Nella
seconda parte, il protagonista racconta come è diventato, per la sua gente, un
cinese “banana”: giallo fuori e bianco dentro. Con un dialogo, mano a mano più
intimo con il pubblico, lattore parla del suo impatto traumatico con la scuola
italiana; del duro lavoro fin dalla tenera età come lavapiatti, come venditore
ambulante, come massaggiatore; degli anni delluniversità e della breve
esperienza allAccademia darte drammatica “Paolo Grassi”; fino alla
testimonianza indiretta di una tragedia: un incendio nel quale persero la vita
in una fabbrica pratese sette operai cinesi, nel dicembre del 2013.
Yang
Shi, clown e giocoliere della parola,
è abile nel padroneggiare litaliano e il mandarino nei bruschi passaggi linguistici.
Tuttavia, nel suo lungo monologare, lattore accusa una comprensibile
stanchezza, a spese del ritmo scenico, che si dilata, forse eccessivamente.
Se lintera operazione culturale è lodevole –
testimonianza viva, in carne e ossa, dellincontro/scontro fra due culture
antitetiche –, il testo è in più occasioni troppo didascalico, appesantito da
un massiccio ricorso alla parola come canale espressivo privilegiato del racconto.
La sintesi e la forza di alcuni segnali “visivi” adottati dalla regista sono
già sufficienti a restituire unidea precisa del messaggio dello spettacolo, al
di là di tante buone parole.
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