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Camere con vista sull'orribile Europa

di Gianni Poli
  Hotel Belvedere
Data di pubblicazione su web 27/03/2015  

L’impressione favorevole dello spettacolo, trasposizione dell’opera omonima di Ödön von Horváth e diretto da Paolo Magelli per il Teatro Metastasio, deriva dalla chiara individuazione del tema trattato – l’Europa malata d’odio, intrisa di miseria morale, fra le due Grandi guerre – e dalla sapienza della sua rappresentazione. Nella visione di von Horváth, la mitologica e poetica Europa sprofondava nel vuoto e nella disperazione dei suoi abitanti.

«In questo testo – nota il regista – si incontrano e si scontrano con indicibile violenza e humour noir tutte le classi sociali di un’Europa senza amore affaccendata a salvare se stessa e a distruggere gli altri, i più deboli. Questo testo non è soltanto un incredibile vaticinio che ci porterà agli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ma ci lascia sconcertati perché in esso riconosciamo senza dubbio le inquietanti anomalie antiutopiche della storia che stiamo vivendo».

Un’opera difficile, scritta nel 1923, dal linguaggio inusitato, nuovo in Italia, i cui personaggi si specchiano in se stessi, dialogano quasi per monologhi paralleli e restano isolati nella loro reciproca sordità metaforica. La struttura discontinua, rapsodica (che la sonorità della traduzione accentua) è causa di una Babele linguistica che coinvolge la personalità di ciascuno, prigioniera di se stessa e di tutti nemica. Un’ulteriore difficoltà sta nei registri consoni alle relative espressioni, concretate, in prima evidenza, nei costumi d’epoca dei personaggi. Figure che senza l’espressionismo del grido o del grottesco non aspirano ad alcuna vera motivazione psicologica. Sarà perché in quell’Hotel si sono incontrati, per una causalità immaginaria, alcuni esemplari della società storica reale: non quindi allegorie, ma uomini malati e tragicamente determinati.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Paolo Cambursano

L’Hotel che in prima stesura s’intitolava proprio Europa, finisce per indicare a contrasto la sgradevole prospettiva che da esso si offre agli ospiti. Questi sono il Direttore Strasser, uno spiantato che dipende finanziariamente dalla Baronessa sua amante; un cameriere con velleità artistiche; un rozzo autista, pregiudicato immigrato e Ada von Stetten, nobile al tramonto. Li raggiungono Müller, un rappresentante di commercio già reo assassino e creditore di Strasser e infine il Barone Emanuel, fratello di Ada, sull’orlo del suicidio per debiti di gioco.

L’azione, in tre atti, si svolge nel giro di mezza giornata, dal pomeriggio all’alba. Illustra lo stato d’avanzato sfacelo esistenziale di persone senza futuro, che si aggrappano a un presente precario. I maschi sfogano violenza sulle donne le quali, come dimostra la Baronessa, controllano gli uomini col denaro o col sesso. Estranea appare la giovane Christine che, sedotta e abbandonata da Strasser, da lui ritorna madre d’una figlia, confermandogli il suo amore e l’intento di aiutarlo a gestire l’albergo. Graziata inoltre da un’improvvisa, inattesa eredità, diventa desiderabile anche all’avidità degli altri maschi.  

La commedia, aspra, spesso persino comica, volge in dramma inevitabile, per i comportamenti con cui i protagonisti eludono i problemi veri. E il regista sceglie un’espressività fredda, deprivata di pathos appunto negli snodi più dolenti (quali l’aggressione di Christine) e nelle circostanze umanamente più compromesse e difficili, come quando Ada viene schiaffeggiata da Strasser o viene coperta da Max con cubetti di ghiaccio, a placarne simbolicamente i furori. Così queste vite incrociate e non condivise mostrano come la malvagità procuri assuefazione, la crudeltà si pratichi con noncuranza, sintomi d’una malattia pervasiva.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Paolo Cambursano

La regia chiede l’apparente naturalezza a comportamenti abnormi, imponendo un’evidenza quasi tautologica: ciascuno avanza le proprie ragioni (o moventi) quale unica soluzione a difficoltà individuali, non soltanto per egoismo, ma per errata valutazione della loro portata universale. Viene abbassato il registro melodrammatico mentre si sorvegliano i momenti di tensione e lacerante contraddizione. Agli eccessi e gli scarti linguistici (onomatopee o versi prossimi al comunicare animalesco), si sommano licenze scurrili e grevi allusioni sessuali, come rivelazione inconscia di zone rimosse. Ciò accade ad esempio nella sequenza delle violenze imposte a Christine, insultata e malmenata a sangue. Scena di prevaricazione d’ogni dignità, che segue a un premeditato atroce scherzo teatralizzato condotto in gruppo. Eppure ella fuggirà, libera almeno da una compromissione inaccettabile. Appare pure in lei, più debole rispetto ad Ada, una rivalità che comprende la gelosia alimentata dall’amore per lo stesso uomo; ma che ammette una solidarietà più semplicemente umana, quando le donne, fisicamente ravvicinate, paiono capirsi se non riuscire ad aiutarsi.

Valentina Banci è Ada volitiva, avvezza a dominare, conscia della fragilità e del potere seduttivo che le viene da un corpo sensuale e da una parola acuminata. Le corrisponde l’interpretazione appassionata e rattenuta di Elisa Cecilia Langone, vittima autentica senza rimpianto o autocompassione. Strana eroina priva d’aureola, corpo sacrificato e animo costante. In compatta coralità, gli interpreti maschili condividono parità di ruoli e d’impegno. La struttura drammatica richiede un’autonomia corresponsabile a personaggi tutti protagonisti. Francesco Borchi dà al cameriere Max un’insolenza simpatica nel frivolo distacco. Daniel Dwerryhouse rende palpabile il cinismo pratico dell’autista Karl, compare di sbornie della Baronessa. Fabio Mascagni è uno Strasser impotente e indeciso, ma abile gestore del suo fatiscente locale. Mauro Malinverno è il Barone vile e pavido. Müller è reso da Marcello Bartoli un efficiente commerciante e un risibile interlocutore dei potenti. Ma tutti concordi nel ribadire i luoghi comuni di una classe (ex) egemone in effetti esautorata, incapace e corrotta, razzista e reazionaria.

Visto in tournée al Teatro della Corte di Genova, lo spettacolo offre un’interessante variante drammaturgica e, rispetto alla creazione, un’ulteriore semplificazione scenografica. Il Cameriere serve a pranzo, a piatti vuoti, la carta geografica dell’Europa, che la didascalia piazzava su una parete del salone. Sicché la masticazione del simulacro stampato è comminata al gruppo quale paradossale contrappasso. Le pareti e i tendaggi d’arredo scompaiono, sostituiti da quinte e pannelli neri. L’ultimo atto si svolge in una sala vuota, simile all’atrio d’una banca, illuminata da plafoniere. La musica ha una presenza incostante e forte, negli strappi e singulti dei violini, straziati dall’archetto nervoso e bizzarro della Storia: voce evocativa del disastro latente e, in aggiunta, il tuono annunciatore d’una burrascosa primavera.


Hotel Belvedere
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