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Shakespeare tradotto in siciliano per l’Otello reinventato da Luigi Lo Cascio

di Francesco Tomei
  Otello
Data di pubblicazione su web 23/03/2015  

Non è una novità Luigi Lo Cascio alla prova come drammaturgo e regista: proprio a Prato, dov’è appena giunto alla ribalta il suo Otello, vide la luce al Teatro Fabbrichino il suo adattamento per uno dei racconti kafkiani, La tana (2005), scritto per gli attori della compagnia del Teatro Stabile della Toscana. Al Metastasio, la nuova fatica di Lo Cascio brilla nel segno di un nuovo tipo d’operazione drammaturgica: il tentativo di mettere in relazione la poesia shakespeariana, anziché con un italiano colloquiale o poetico che sia, con un vibrante dialetto siciliano, versificato in endecasillabi. Una lingua arcaica imbevuta del patrimonio linguistico di antiche terre lontane dalle radici greche, arabe-normanne, portatrice di suggestioni provenienti da un “altrove” ideale, ricca di fascinazione ma, allo stesso tempo, concreta come ogni dialetto parlato e ancora in uso, quindi capace di arrivare dritto all’espressione dei pensieri e ai sentimenti dei personaggi.

La scommessa di Lo Cascio è vincente poiché, malgrado l’impiego di una lingua che non possiede un registro poetico alto, bensì parlato, non viene meno nello spettacolo il registro lirico che contraddistingue i capolavori tragici shakespeariani. Anzi, il siciliano restituisce alla vicenda quella suggestione di antica tragicità che con l’impiego di un italiano standard sarebbe stato più difficile ricreare.


Un momento dello spettacolo
© Antonio Parrinello

Ci troviamo in quella che sembra la grande tenda del generale Otello durante una delle sue campagne militari. L’atmosfera della scarna scena disegnata da Nicola Console e Alice Mangano è cupa, gli elementi scenici, sapientemente illuminati da Pasquale Mari, sono pochi, tutti praticabili e funzionali al movimento degli attori. La scenografia, scarnificata del décor più posticcio, è invece popolata da curiosi disegni animati, che a tratti appaiono improvvisamente dall’oscurità nei momenti fra i più significativi dello spettacolo: strumenti di tortura, vermi e altri inquietanti dettagli volti a sottolineare l’evoluzione degli stati d’animo di Otello.

Questa riscrittura è senza dubbio una riduzione che non risulta essere una sintesi, ma una reinvenzione del capolavoro shakespeariano, rivisto sotto una chiave di lettura originale. Dai cinque atti si passa a un atto unico, il numero dei personaggi è ridotto a quattro: un incandescente Otello diviso fra i sussurri dell’alfiere Jago e l’amore per una Desdemona marziale che vuole imparare a combattere. Il quarto personaggio, altrettanto importante, è il perno attorno al quale ruota tutta la vicenda: un soldato (Giovanni Calcagno) che assume la funzione di narratore della storia.

Questa invenzione proietta lo spettacolo, che diventa un grande “cunto” della tradizione orale, in una dimensione epica, rafforzata con un’intera scena nella quale Otello (Vincenzo Pirrotta) e Desdemona (Valentina Cenni) si scambiano una fitta e appassionata corrispondenza. In una di queste lettere, un Otello straziato dal dolore racconta alla sua amata le gesta eroiche e la morte del fratello sul campo di battaglia, come fosse l’episodio, al culmine del pathos, di un racconto di cavalleria trovadorico. Se Luigi Lo Cascio, di concerto con gli scenografi, ha scelto di lavorare per sottrazione, ciò non toglie che questa riscrittura non sia ricca d’invenzioni drammaturgiche, non ultimo il finale grottesco e surreale dove Otello, accompagnato dal soldato, va a recuperare il fazzoletto e le lacrime di Desdemona sulla luna.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Antonio Parrinello

L’Otello interpretato da Vincenzo Pirrotta è un gigante colossale: sembra essere una statua, che s’arroventa prima di amore, passione, poi d’odio e gelosia. Un Otello incandescente, caratterizzato dal passaggio repentino da uno stato d’animo all’altro, reso con maestria attraverso la ricerca vocale di un attore che utilizza tutta la gamma della sua straordinaria vocalità e impiega largamente la sua fisicità, sempre coerentemente con le linee guida del suo personaggio concordate con il regista. Otello è un eroe tragico gigante che brucia e si dimena, ma senza disarticolarsi o rimpicciolirsi.

L’alfiere Jago di Luigi Lo Cascio, misogino e scaltro, agisce poiché la mente di Otello è già ammorbata dal sospetto; i suoi sussurri non sono altro che la miccia che arroventa le passioni di un generale che è, invece, artefice del proprio destino tragico. Questo Otello “bianco”, cucito addosso a un Vincenzo Pirrotta efficace, non è più un moro sempliciotto, attanagliato dagli istinti più ferini, ma è un uomo che, come Jago, non riesce a comunicare, a entrare in una relazione sana e profonda con uno sconosciuto universo femminile.

In tutto lo spettacolo non c’è alcun riferimento all’etnia di Otello: chiara è l’intenzione di Lo Cascio di spostare l’attenzione dagli stereotipi razziali del dramma alla delicata questione dell’incomunicabilità fra il mondo maschile e quello femminile. L’unico personaggio, infatti, che non parla in siciliano bensì in un elegante italiano è la Desdemona di Valentina Cenni.

Questa messinscena riversa direttamente sullo spettatore la sua carica tragica. Tutti i personaggi, non solo il narratore, hanno un forte momento d’apertura verso il pubblico al quale si rivolgono direttamente e appassionatamente: riecheggia nella sala un coro tragico, un lamento dalle radici primordiali che arriva dritto fino allo spettatore, chiamato a esprimere un pensiero, una considerazione sul comportamento e sul destino di questi personaggi “immortali”.




Otello
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