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La signora Warren e le contraddizioni del capitalismo

di Eloisa Pierucci
  La professione della signora Warren
Data di pubblicazione su web 16/02/2015  

La scena è spoglia: pochi elementi di arredamento sistemati qua e là, un parapetto scomponibile a delimitare i due diversi piani in cui si articola l’azione. Sullo sfondo, campeggia un enorme biglietto da cinque pounds. Il denaro e gli spietati meccanismi dell’economia capitalistica sono infatti alcuni dei temi centrali di questa «commedia sgradevole» di George Bernard Shaw (inserita nella raccolta Plays: pleasant and unpleasant del 1898).

Musiche misteriose e un efficace gioco di luci e ombre contribuiscono a creare l’atmosfera cupa in cui il regista Giancarlo Sepe sceglie di ambientare l’inizio del primo atto, in netto contrasto con il quieto clima bucolico previsto dall’autore nelle sue dettagliate didascalie. La signora Warren, in nero e occhiali scuri da perfetta dark lady, fa il suo ingresso in automobile per poi avvicinarsi con fare circospetto alla figlia Vivie: in un momento di enigmatica sospensione, tutti i personaggi della pièce si fanno intorno alla giovane co-protagonista, che, ignara, continua a leggere i suoi libri.

Questo inquietante incipit è, insieme alla decisione di spostare l’epoca di ambientazione della vicenda dalla fine dell’Ottocento agli anni ’50 del Novecento, l’unica libertà che il regista si concede rispetto al testo. In seguito l’azione procede spedita, senza pause poetiche, scandita dai pungenti dialoghi di Shaw, ora serrati e ricchi di humour, ora dilatati nel ritmo meno sostenuto – ma ugualmente implacabile – dell’orazione.


Giuliana Lojodice in un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.

È infatti una vera e propria sfida retorica quella che contrappone madre e figlia: simmetricamente, alla fine del secondo e poi del quarto atto, l’autore colloca le due grandi scene di confronto-scontro tra le due figure femminili, portatrici di opposte visioni del mondo, ma entrambe vittime più o meno inconsapevoli di un sistema economico disumanizzante e delle sue logiche utilitaristiche. La signora Warren, nata in un ambiente poverissimo e costretta fin dall’infanzia alla lotta per la sopravvivenza, sperimenta dapprima l’umiliazione e la fatica del lavoro “onesto”, poi decide di dedicarsi alla prostituzione e diventa, col tempo, una ricchissima e influente tenutaria di “case”. Una scelta quasi obbligata la sua, dettata dalla necessità di sottrarsi alla miseria e al controllo maschile in un contesto che alle donne offre ben poche opportunità: in questa fiera indipendenza, conquistata a caro prezzo, c’è più dignità che nella condizione servile dell’operaia o nella tranquilla e sottomessa esistenza della moglie borghese.

Ma è l’istituzione matrimoniale, cardine della benpensante società vittoriana, che il drammaturgo irlandese colpisce, per bocca della protagonista, con i suoi strali più acuminati: «che cosa è educata a fare qualsiasi rispettabile ragazza se non a cercare di cogliere il capriccio di un uomo ricco e usufruire del suo denaro sposandolo? Come se la cerimonia nuziale trasformasse in giusto quello che è sbagliato senza matrimonio!» (G. B. Shaw, La professione della signora Warren, Candida, Cesare e Cleopatra, trad. di Franco De Poli, Milano, Fabbri, 1969, p. 59).

Dal canto suo Vivie, che ha ricevuto un’ottima istruzione grazie al denaro della madre (denaro di cui ha sempre ignorato la provenienza), ambisce a mettere presto a frutto i suoi studi per gettarsi a capofitto nel lavoro. Orgogliosa e indipendente quanto la signora Warren, riuscirà anche lei a sfuggire al convenzionale e opprimente ruolo di moglie – e, alla fine, anche al controllo materno –, ma non ai più sottili condizionamenti imposti dal sistema capitalistico: fanatica sostenitrice di un’etica professionale intesa come totale annientamento di sé, sceglierà di consacrarsi interamente al lavoro impiegatizio, diventando così “sfruttatrice” di se stessa e della propria giovinezza.


Giuseppe Pambieri e Giuliana Lojodice. Foto di Tommaso Le Pera.

Quando la ragazza viene a conoscenza della professione della madre, in occasione di una delle sue rare visite, lo scontro è inevitabile: se il secondo atto si conclude con la vittoria morale della signora Warren e con una temporanea riconciliazione tra le due donne, il quarto vede consumarsi uno strappo netto e irrimediabile. La fine del secondo atto è suggellata da una benedizione, quella del quarto da una maledizione.

Questa pièce straordinariamente moderna, che all’epoca della sua pubblicazione incorse più volte nella censura, necessita, per poter sprigionare tutta la sua caustica verve, di una protagonista convincente e carismatica. Giuliana Lojodice è molto di più: autoritaria e carezzevole, seduttiva e volgare, schietta e melodrammatica, dosa sapientemente le sue doti espressive per offrirci un ritratto memorabile. Nei decisivi dialoghi con la figlia, l’attrice emerge non solo nel cesellare i propri interventi con una vasta gamma di sfumature vocali e gestuali, passando, con la stessa credibilità, dai toni della supplica a quelli del comando, ma anche nel dare un risalto forse ancor più intenso alle controscene. Al fianco di un’interprete così autorevole, impallidisce un po’ la giovane e ancora acerba Federica Stefanelli, che rischia, nel suo controbattere energico ma tendenzialmente monocorde, di ridimensionare il centrale personaggio di Vivie.

Giuseppe Pambieri, nei panni di sir George Crofts, vizioso baronetto divenuto socio in affari della signora Warren per noia, si avvale di una recitazione accurata, forte di una voce calda e musicale e di una fisicità elegante: il bravo attore tratteggia così un personaggio più signorile di quanto richieda il testo (che al contrario insiste spesso sulla volgarità di questo nobile rozzo e corrotto) e non perde il suo aplomb nemmeno quando si abbandona al turpiloquio. Pino Tufillaro incarna un mellifluo signor Pread, dosando perfettamente candore, ambiguità e vanità di intellettuale. Efficace Fabrizio Nevola nel restituire la giovanile sfrontatezza e arroganza di Frank, l’interessato pretendente di Vivie, mentre Fabrizio Tesconi non riesce a trovare una convincente chiave interpretativa nel ruolo caricaturale del pastore Gardner – forse non lo aiuta il look da rock star (abito in pelle, occhiali da sole e capelli ossigenati), che lo fa sembrare quasi più giovane del figlio Frank.

Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.

Sepe punta proprio sugli attori per costruire una regia efficace, sostanzialmente al servizio del testo e dei personaggi: ottima la decisione di semplificare al massimo gli elementi scenici e di dividere lo spazio in modo funzionale. Meno centrata la scelta di accompagnare quasi ogni singolo momento dello spettacolo con un commento musicale: si crea così una sorta di tappeto sonoro che, pur adeguato nel sottolineare le diverse situazioni ed emozioni, perde in parte la propria valenza connotativa proprio a causa di una presenza pressoché ininterrotta.

Convincente l’idea di spostare la vicenda in avanti nel tempo: così la riflessione sui temi cardine della commedia – il capitalismo e la condizione femminile – emerge in tutta la sua attualità. A distanza di oltre un secolo, la società occidentale non è riuscita a conciliare lo sviluppo economico con il rispetto dei diritti umani né a garantire alla donna una piena realizzazione delle pari opportunità: per questo La professione della signora Warren pone ancora oggi domande urgenti, che non dovremmo più ignorare. 



La professione della signora Warren
cast cast & credits
 













Foto di Tommaso Le Pera.


























































 
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