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Nonsenso quasi allegro d'una commedia nera

di Gianni Poli
  Il matrimonio del signor Mississippi
Data di pubblicazione su web 13/02/2015  

Da sempre affascinato dalla scrittura teatrale di Dürrenmatt, Marco Sciaccaluga ne ha rappresentato Il complice, I fisici e Ritratto di un pianeta. Scegliendo ora Il matrimonio del signor Mississippi, ne misura la difficile grandezza: «Quel che ancora ci intriga e ci sorprende è che sotto la maschera del Grande Iconoclasta e sotto la scorza delle sue storie paradossali ed estreme, si nasconde uno sguardo che non ha rinunciato a sperare nell’uomo. Il suo è un teatro di eroi: grotteschi, ridicoli, ma inguaribilmente attratti ad accettare con folle coraggio la sfida di quel Mulino a Vento che è la vita».

Di fronte a quest’opera, impegnativa tanto per gli interpreti quanto per gli spettatori, Sciaccaluga ha colto «le soluzioni intricate e labirintiche» (secondo il traduttore, e che allo spettatore paiono spesso esercizi stilistici faticosi) e ha compiuto uno sforzo notevole per chiarirla senza banalizzarla, risolvendo i problemi strutturali non lievi affioranti nella rappresentazione, comprese le esigenze scenotecniche. La forma relativamente semplice della commedia, derivata dal racconto poliziesco di cui l’autore è maestro, con l’assassinio in apertura, si complica via via nell’assumere in alternanza un andamento narrativo e drammatizzato.

Avviene dunque all’inizio l’uccisione di François R. Saint-Claude, aderente da giovane al comunismo rivoluzionario sovietico, di cui è diventato adepto e da cui è stato sconfessato. Tocca al suo fantasma, in veste di Narratore, ripercorrere cinque anni della vicenda che lo lega ad altri due amici e protagonisti, il Conte Bodo e Florestano Mississippi. Questi, di origini miserabili, ha risalito la scala sociale e rivaleggia da Procuratore con lo stesso Ministro della Giustizia, avendo imposto l’applicazione d’una legalità integralista, fondata sulla morale mosaica. Il Conte, divenuto medico, ha inseguito un ideale d’amore disinteressato e s’è avventurato in una missione filantropica in Borneo, dalla quale tornerà frustrato e deluso.

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
©Giuseppe Maritati

Si palesano così due visioni e comportamenti contrastanti sull’esistenza e sul governo del mondo, mirate a trasformare la società e la storia ed entrambe rivelatesi fallimentari. Nel suo pessimismo, l’autore chiudeva i suoi rapporti pubblici dichiarando: «La Svizzera è una prigione». Eppure trattando della giustizia, osservata nei modi con cui viene applicata da un’umanità folle e rabbiosa, il drammaturgo viveva con sofferenza tale condizione critica e la sua protesta si scagliava addirittura contro Dio. Era tale la sua radicale testimonianza e tale la insegue il regista nell’allestimento genovese, contando su una Compagnia di giovani e già fedeli collaboratori. 

La scena è strutturata da Catherine Rankl nello spazio unico del salone ornato sontuosamente della dimora di Mississippi, un locale ottocentesco sopravvissuto all’epoca della Rivoluzione sovietica. L’uso di un velario dipinto intermedio apre lo sguardo sull’esterno, la piazza della rivolta e dell’assedio, quando al rimbombare della mitraglia e dei cannoni, si mischia il Coro della Nona Sinfonia di Beethoven, la musica prescritta dall’autore. Il sipario delimita un proscenio praticabile dal Narratore, che inizia annunciando tema e trama del racconto, una vicenda di «tre uomini che vollero cambiare il mondo».

Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
©Giuseppe Maritati

Mississippi avvia gli eventi decisivi. Prende in moglie Anastasia, adultera e assassina del marito, sperando in un’impossibile espiazione e redenzione, per dimostrare l’effetto terapeutico del suo moralismo a oltranza. Ugo Dighero interpreta il protagonista con semplice realismo, fra l’intransigenza di millantate riforme e più intime domande, senza caricatura del paradosso comico che incarna. Usa toni colloquiali e autoritari con Anastasia, ma non per questo riesce a conquistarla. Col nuovo legame, la donna assume anzi un potere crescente all’apparenza sovrumano che costituisce l’enigma attorno al quale l’inchiesta del Procuratore s’infrange, alla ricerca d’una verità che, pure confessata, non troverà prova. Così come naufraga per lei la ricerca d’amore di Bodo e sfuma il capriccio del Ministro Diego.

La protagonista (Alice Arcuri) non simboleggia il Male espressionista, ma la compresenza casuale degli opposti. Il suo fascino non le deriva dalla sensualità o dalla bellezza innate, né dall’orgoglio, ma dall’inaccessibilità del suo mistero naturale. Bella e giovane, in semplice tailleur celeste e cravatta, appena androgina, esercita una malia inspiegabile. Il Conte Bodo di Roberto Serpi proviene da un coacervo di miserie e velleitarie ambizioni, senza passioni autentiche. La sua è la recita di un ubriaco cronico legato a un passato di slanci imbelli verso la sublimazione di esigenze molto terrene. Divaga, sospira, fino a identificarsi con un Don Chisciotte disarcionato, senza elmo e senza lancia.

Andrea Di Casa
interpreta Saint-Claude con energia e intraprendenza giovanili. Riesce convincente illustratore del gioco teatrale, col garbato distacco d’un cronista, inserendosi nei dialoghi da comprimario. Roberto Alinghieri sa rendere burocratici il portamento e l’eloquio del Ministro Diego, fra ragion di stato e utilità personale. Fiducioso nell’eversione violenta, punta a realizzarla con pragmatica efficacia. Rachele Canella ha l’automatica puntualità della cameriera da vaudeville, cifra che a volte segna le scene nelle loro coincidenze farsesche. Il Professore (Nicolò Giacalone), assistito dai suoi ligi e monotoni infermieri, libera accenti teutonici nella parodia del suo intervento per internare il Procuratore.

Il finale concentra altre occasioni di grottesco e amara contraddizione, nell’incontro fra i due sposi, infine vittime di avvelenamento reciproco. La loro morte conferma, nel destino tragico, l’insensatezza e della loro esistenza e della Storia in generale. Segue il rientro di Saint-Claude, nuovamente condannato a morte e giustiziato, secondo lo schema ripetitivo annunciato. Poi tutti fantasmaticamente risorti ascoltano il risibile commento di Bodo sulla commedia comune, «nutrita dalla nostra impotenza». Considerandola opera centrale nel Novecento (con quella di Ionesco e di Beckett) e riconoscendone i riferimenti a quella di Brecht, da cui si distingue, la regia ha concepito una sintesi aderente alle figure del Dürrenmatt più maturo e coerente. La risposta del pubblico ne apprezza l’idea e applaude la rappresentazione, avvalorate entrambe dalla prova convincente degli attori.




Il matrimonio del signor Mississippi
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