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Rigoletto negli abissi del decadentismo

di Riccardo Cenci
  Rigoletto
Data di pubblicazione su web 10/02/2015  


ĞImmorale e oscenağ: in questo modo la direzione centrale d’ordine pubblico definiva la trama di Le roi s’amuse, il dramma di Victor Hugo dal quale Verdi avrebbe ricavato il Rigoletto. Un’opera Ğdel tutto nuova, vasta, senza riguardo a convenienze di sortağ, per citare le parole che il compositore usa in una lettera al librettista Cammarano riguardo al progetto mai realizzato del Lear. E proprio con il dramma shakespeariano il Rigoletto mostra affinità non secondarie, in quanto tragedia della paternità e dell’inganno. Fulcro di entrambe le vicende una tempesta, a simboleggiare i conflitti che dilaniano i personaggi, motivo peculiare la cecità, reale o metaforica, intesa quale incapacità di leggere il reale.


Lo spettacolo visto all’Opera di Roma è quello già presentato lo scorso ottobre, ripreso ora per cinque recite. Allestimento minimale e “povero”, al quale bastano pochi tendaggi a suggerire un ambiente, mentre la resa atmosferica è affidata a un sapiente gioco di luci. Un mondo avvolto da un’aura di inevitabile disfacimento, dal sapore vagamente mitteleuropeo. Leo Muscato, da abile uomo di teatro, gioca tutto sui movimenti e sulla gestualità dei personaggi. Se qualcosa manca è un’idea registica forte. La trasposizione epocale (la vicenda appare infatti ambientata fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo scorso) non è peregrina. I cortigiani si aggirano sulla scena indossando maschere da maiali, indizio sin troppo esplicito del loro carattere degradato, mentre le donne vestono abiti liberty che le trasformano in semplici oggetti del desiderio, creature destinate allo sfruttamento sessuale.


Un momento dello spettacolo
İYasuko Kageyam

 

Lacerato da pulsioni contrastanti, l’animo di Rigoletto è perennemente solcato da fantasmi che paiono prefigurare certi esiti del teatro espressionista. Come il Wozzeck creato da Alban Berg a partire dal dramma di Büchner, il buffone verdiano precipita negli abissi di una realtà che non riesce a comprendere. Nella scena cruciale del ratto di Gilda indossa volontariamente una Ğlarvağ che lo rende cieco e sordo, materializzazione del suo distacco dal mondo. Rigoletto appare preda di una follia allucinatoria dal carattere estremamente moderno. Molto efficace la scena della tempesta, con il coro posto in alto, rivelato solo dal gioco delle luci, il quale a bocca chiusa evoca il sibilo del vento, un momento unico nel teatro verdiano. Ancora una volta non possiamo fare a meno di pensare al Wozzeck, al coro a bocca chiusa dei soldati, un lamento che sembra provenire da una profondità distante e infinita. Un altro esempio di quanto Verdi in quest’opera abbia guardato avanti.

Discontinua la direzione di Gaetano d’Espinosa, lodevole nella sua volontà di sfuggire ogni eccesso melodrammatico mantenendo una condotta musicale asciutta, anche se non sempre rifinita e profonda. Giovanni Meoni è un Rigoletto dal segno drammatico appannato, comunque stilisticamente elegante, più efficace nel delineare i tratti del patetismo affettivo che quelli della rabbia o del dolore disperato. Yosep Kang inizia in sordina, poi cresce impersonando un Duca sufficientemente protervo. Claudia Boyle ha voce sottile ma ben governata, adatta a rendere la fragile innocenza e la devozione sacrificale di Gilda. Carlo Cigni è un Monterone dal timbro opaco. Apprezzabili lo Sparafucile di Marco Spotti e la Maddalena di Anna Malavasi.

Fra i comprimari ottimi il Marullo di Marco Camastra e la Giovanna di Marta Torbidoni. Teatro non pieno, come sarebbe stato lecito attendersi in presenza di un titolo dall’appiglio popolare, comunque ricco di presenze giovanili, segno che forse qualcosa si sta facendo per accostare le nuove generazioni al melodramma.


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