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Domanda a risposta aperta

di Chiara Schepis
  Il visitatore
Data di pubblicazione su web 10/02/2015  

Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt, prolifico drammaturgo e professore di filosofia francese, ha debuttato a Parigi nel 1993 e, da allora, ha goduto di una favorevole fortuna. Il regista Valerio Binasco pesca dalla drammaturgia contemporanea questo testo e ne propone una nuova versione, curando la traduzione e l’adattamento.

«Aprile 1938. Vienna». Schmitt, dentro la palla di vetro di una struttura da dramma borghese, ci racconta il microcosmo della vecchiaia del Dott. Sigmund Freud – un impeccabile Alessandro Haber, mistificatore malgré lui e analista analizzato – in un interno domestico violato dalle folate di odio storico che aprono la finestra, “buco” che connette il dramma personale con quello sociale. Dalla finestra entrano infatti sferzate gelide di voci, che invadono l’intimità dell’io-comune in attesa della Guerra Mondiale, la seconda. Ad interferire sull’io-particolare dello scienziato coerente con i propri principi, restio a firmare il salvacondotto per l’estero, due accadimenti: l’arresto della figlia Anne, Nicoletta Robello Bracciforti, da parte di un caporale della Gestapo, Alessandro Tedeschi – che bene incarna lo stereotipo dell’autorità ignorante, temibile miles gloriosus che sputa «merda» facendo sorridere – e l’apparizione di uno strano individuo, il visitatore, Alessio Boni.

Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.
Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.

Il sipario del Teatro del Giglio di Lucca si apre sulla scena unica che ospiterà i cento minuti nei quali l’atto si articola. Buia la sala, lo spettatore è proiettato su uno spazio sbilenco, scricchiolante, che soffoca il palcoscenico comprimendolo verso il proscenio con vertiginose corse in profondità e di lato. Leggermente spostata sulla sinistra una parapettata in legno mostra lo spaccato di interno, lo studio di Freud, mentre sul lato sinistro la finestra “sbatte” sulla strada. Finestra come porta, passaggio tra il dramma particolare e il contesto, apertura possibile per entrate non accertabili e uscite incontrollate. Al contrario, dall’uscio in fondo (sempre a sinistra) entrano abusi e soverchierie, ma sempre bussando rumorosamente. Al centro dello studio, ancora, una porta conduce a un’altra camera, che ci lascia solo sbirciare.

Se questo impiantato scenico è schiacciato a sinistra, sul lato destro, con evidenziata asimmetria, non c’è nulla, o quasi. Lo studio si apre a destra su uno spazio ambiguo, un set, una “scena” costituita da un proiettore e un drappo di sipario; scena che però mantiene una certa continuità con l’interno di sinistra grazie a un lampadario che cala dall’americana-luci, anch’essa a vista.

Binasco, e con lui lo scenografo De Marino, sembrano aver voluto contrapporre a un testo emotivamente forte, e assolutamente di parola, una scena straniante. Siamo a teatro: Freud è abituato a dissertare in forma di saggio, Haber si sposta verso il riflettore per “recitare” i monologhi. Il visitatore, Dio-clochard-matto, potrebbe essere entrato dalla finestra. Boni (ma l’immagine ci ricorda un suo Michelangelo poco felice) striscia fuori da quel pezzo di sipario a destra dietro il quale era rimasto nascosto durante l’irruzione nazista.

Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.
Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.

La teatralità è ostentata e cerca di rompere la facile immedesimazione dalla quale però è difficile sfuggire, in particolare a causa della straordinaria prova d’attore di Alessandro Haber. Invecchiato, dalla barba lunga e nascosto dietro spessi occhiali tondi, il volto dell’attore cattura l’attenzione dello spettatore, straziato da ogni suo rantolo. Quello di Haber è un Freud malato: il tumore alla gola tormenta il personaggio proprio come il tremore, gesto-segno costantemente sostenuto, costringendo l’attore a una recitazione spezzata, trattenuta, dolente. Haber pare abbia costruito il suo personaggio dall’esterno: non c’è nulla di psicologico nel suo tremare, e non c’è nulla di meno psicologico del personaggio dubbioso che quel tremolio crea.

Alla base della sua interpretazione si percepisce quindi l’imposizione di un ritmo velocissimo e continuamente spezzato, che raggiunge il risultato di un faticoso e penoso inseguimento del filo del discorso da parte di un uomo abituato a spiegarsi bene. Un uomo vecchio. Se il bambino fa domande, se il vecchio fa domande – ci dice Freud – l’adulto si illude di saper rispondere. In realtà la risposta non è mai definita. Il dubbio è lo stato costante in cui l’essere umano si trova a vivere, e chi si pone profondi interrogativi vive con angoscia tale stato. Il visitatore acuisce le incertezze di Freud e i loro discorsi indulgono sulla dialettica eterna tra fede e scienza, uomo e Dio. Qui però siamo a teatro e il gioco che gli attori creano è quello di uno scambio continuo di ruoli: il pazzo che si fa analista, l’analista che si trasforma in malato, l’incredulità che diventa fede, che si fa disperazione e rimane dubbio.

Alessio Boni, solo un matto o forse Dio “solo”, scompare saltando dalla finestra dalla quale si presume sia entrato; Haber-Freud, novello San Tommaso a caccia di prove oggettive, gli spara mancando il bersaglio. All’età adulta del mondo Dio non offre prove e la fede rimane una domanda a risposta aperta.



Il visitatore
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La locandina
Un momento dello spettacolo. Foto di Tommaso Le Pera.

 
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