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Dalle ceneri: la poesia di Ben Jelloun per resistere all’oblio della guerra

di Eloisa Pierucci
  Dalle ceneri
Data di pubblicazione su web 09/02/2015  

 

«Una volta che si è stesa una coperta di sabbia e cenere su migliaia di corpi anonimi, si coltiva l’oblio. È allora che la poesia si solleva. Per necessità». Queste parole, tratte dall’Introduzione al poemetto Dalle ceneri dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun (il Melangolo, 1991, p. 10), offrono forse la miglior sintesi di quella breve, intensa opera poetica. A ispirarla, la lunga scia di morti senza identità causati dalla prima Guerra del Golfo: Ben Jelloun ha voluto così dare voce alle vittime silenziose del conflitto, generalmente ignorate dai media o cinicamente conteggiate tra i “danni collaterali”. Ma l’accorato lamento in prima persona, canto sommesso eppure tenace, diventa espressione di una condizione più ampia: quella dell’essere umano schiacciato dalla guerra in quanto tale, senza particolari connotazioni di tempo e spazio, senza ipocrite definizioni (“guerra umanitaria”) che possano in qualche modo distinguere, giustificare.

 

Nell’adattamento teatrale del poema di Massimo Luconi, in prima nazionale al Teatro Fabbricone di Prato, si può cogliere il tentativo di restituire la valenza universale del lavoro di Ben Jelloun (autore già portato in scena dal regista nel 2002 con Le pareti della solitudine): ciascun elemento concorre nel dare allo spettatore l’impressione di trovarsi di fronte a un’azione senza tempo. A cominciare da scene e costumi, dominati dal bianco, e dalla luce blu che avvolge l’inizio della performance, accompagnata dal rumore del mare. Le valigie disseminate ai lati della scena sono quelle di chi fugge per cercare di assicurarsi un futuro: i rifugiati di guerra, ma anche i migranti di ieri e di oggi. I libri, anch’essi presenti in abbondanza quali irrinunciabili compagni di viaggio, sono il legame tangibile – e segno scenico forse eccessivamente didascalico – con l’assunto fondamentale del testo: la poesia – e, più in generale, la parola – come antidoto all’oblio.

 


 
Ibrahima Diouf in un momento dello spettacolo. Foto di Cristina Bartolozzi.
 

La scena è invasa da un telo bianco; sullo sfondo si stagliano tre candide figure immobili, che lentamente, una ad una, si animano per declamare, con solenne musicalità, alcune strofe introduttive del poema: «quel corpo che già fu un corpo / non si attarderà più / sulle rive del Tigri o dell’Eufrate, / messo in un sacco di plastica nero / quel corpo che già fu un’anima, / un nome e un volto / ritorna alla terra e alle sabbie / rifiuto e assenza». Poi il telo viene sollevato per scoprire, in primissimo piano, un uomo inerte, adagiato in un baule: l’umanità spogliata di tutto – casa, nome, volto –, che si riabilita per mezzo della poesia.

 

Inizia così un lungo monologo, interpretato dall’intenso e talentuoso Ibrahima Diouf, dove non a caso ricorrono i vocaboli che in francese indicano due diversi significati del termine “parola” (mot e parole). La performance del giovane attore senegalese è caratterizzata da una vocalità dolce e potente, che trascorre dalla narrazione poetica all’invettiva senza mai sconfinare nel grido, sfociando invece, in alcuni momenti, nel canto di nenie in lingua wolof. Anche i gesti, improntati a una energica elasticità, conservano la loro plastica armonia persino nelle azioni più convulse (come svuotare il baule, pieno di poveri oggetti d’uso quotidiano e naturalmente di libri) e nei momenti di maggior tensione emotiva, quando l’interprete si fa vicinissimo agli spettatori seduti ai bordi della scena e li fissa negli occhi con un’espressione di meravigliato orrore. 

 


 
Un momento dello spettacolo. Foto di Cristina Bartolozzi.

 

Dalle ceneri, che si chiude con un canto corale, preceduto da altri brevi interventi delle figure in bianco – se ne è intanto aggiunta una quarta, che porta con sé altre valigie stipate su una sedia a rotelle –, trova i suoi punti di forza nella toccante interpretazione di Diouf e nella straziante eppure composta bellezza dei versi di Ben Jelloun. Efficace anche l’impiego di quattro attori senegalesi non professionisti nel ruolo degli «angeli» (come li definisce il regista), la cui funzione di partecipe commento ricorda in qualche modo quella svolta dal coro nella tragedia greca; interessante l’idea di riservare loro la declamazione di alcune strofe nella versione italiana del testo, in contrapposizione al francese del protagonista (opportunamente tradotto con sopratitoli). Luconi, del resto, ha avuto modo di lavorare a lungo con gli stessi interpreti: un primo frutto di tale collaborazione è stato lo spettacolo Antigone, una storia africana, presentato a Prato nel 2014.

 

Tuttavia questa affascinante operazione, significativa anche sul piano etico per il messaggio di pace e di denuncia della violenza che intende veicolare – un messaggio tutt’altro che scontato e oggi più che mai necessario –, non convince pienamente, sia per l’uso un po’ ridondante e didascalico di alcuni oggetti ed effetti (i già menzionati libri, ma anche la polvere gettata in aria da Ibrahima Diouf proprio nel momento in cui declama: «une poussière blanche tombe sur le visage»), sia, soprattutto, per il parziale sfruttamento delle potenzialità offerte dalla vicinanza del pubblico. Una parte degli spettatori si trova quasi in scena e viene di tanto in tanto coinvolta dal gioco del protagonista; ciononostante non si ha quasi mai la sensazione di trovarsi immersi «in un rito arcaico» (come enunciano le note di regia), ma piuttosto quella di assistervi dall’esterno. Forse avrebbe giovato osare di più, sviluppando maggiormente questa buona intuizione.



Dalle ceneri
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