«Questa è unopera tosta». Così mi diceva un autorevole studioso di avanguardia musicale, quando, settimane addietro, parlavamo dellimminente rappresentazione dei Soldaten alla Scala. Detto da lui suonava come una minaccia. Se cè un aspetto su cui volentieri si glissa, ragionando di una fetta importante della “grande” musica del Secondo Dopoguerra, è proprio il suo rapporto col pubblico: che effetto faccia, se addirittura piaccia o meno sono domande che non ci si pone. Qui invece perfino lesperto mi metteva in guardia. Eppure non ero convinto di questo giudizio.
Sì, perché Die Soldaten, per quanto «tosti», non condividono il destino della maggior parte delle opere degli ultimi settantanni: una non disprezzabile circolazione, dopo la sua prima a Colonia nel 1965, questopera in quattro atti di Bernd Alois Zimmermann su libretto proprio di Jacob Lenz, ce lha avuta, come non accade in genere mai con le opere contemporanee. Infatti, lallestimento della Scala, sebbene sia il debutto del titolo a Milano, è frutto di una coproduzione col Festival di Salisburgo (dove lo spettacolo è stato presentato nellagosto del 2012), ed è stato preceduto da produzioni in diversi teatri europei: Parigi, Lione, Strasburgo, Stoccarda e lanno scorso Monaco, solo per citare i principali. Saranno anche «tosti», Die Soldaten, ma qualcosa ci deve pur essere in questopera perché non sia mai sparita dalla circolazione, mi sono detto.
Laura Aikin in un momento dell'opera. Foto di Marco Brescia & Rudy Amisano.
Lopera di Zimmermann è unepitome del modernismo. Si serve di unorchestra gigantesca (alla Scala debordava nei palchi di proscenio), fa uso di elettronica, amplificazioni, proiezioni, sovrappone scene dislocate in spazi e tempi diversi. È basata sullomonima “commedia” moderna di Lenz, Die Soldaten (1776), uno dei drammi anti-classicistici per antonomasia, modello di quel Woyzeck di Georg Büchner (1837), che avrebbe ispirato lopera di Alban Berg (il Wozzeck è del 1925), e che a sua volta ha ispirato quella di Zimmermann. Come il Wozzeck i Soldaten sono organizzati in scene costruite musicalmente secondo forme della tradizione (toccate, ricercari, couplets, romanze, corali, addirittura tropi); vi è un impiego di serie dodecafoniche, ma anche di citazioni di musica duso (Zimmermann fu attivo anche come compositore di musica per film, teatro, radio), jazz e reminiscenze del passato (la musica di Bach).
Insomma, questopera è la realizzazione di quella «forma pluralistica del teatro musicale» ricercata da Zimmermann, che sfrutta una grande varietà di linguaggi e di risorse e che non lascia nessuno escluso: lavanguardista ortodosso vi ritrova elementi del serialismo integrale, lavanguardista moderato un omaggio aggiornato allormai metabolizzato Wozzeck di Berg, il postmodernista la congerie di alto e basso, di presente e di passato. E il pubblico dellopera? Quello, cioè, degli abbonati alle stagioni liriche dei teatri che ci trova?
Be, il pubblico degli abbonati non resta fuori a guardare o, forse meglio, a subire. È vero, Zimmermann li (ci) mette a dura prova nel corso dei primi due atti: la scrittura rispetta tutte le convenzioni anticonvenzionali del modernismo anni 60, e anche gli inserti jazz e “classici” non significano mai un alleggerimento o una concessione ad un ascolto piacevole. Tuttavia lopera dal terzo atto in avanti prende una direzione diversa. Dopo la frammentazione dei primi due atti, il dramma si coagula intorno al destino di Marie, la protagonista. Con la tragedia che si fa via via inevitabile, la partitura introduce elementi nuovi: dai toni lirici della quinta scena del terzo atto (i tropi, un terzetto tra la Contessa, Charlotte e la sfortunata Marie), ai timbri rarefatti dellorchestra nelle scene successive, che alla conclusione lasciano però spazio solo al martellare violento e inesorabile dei tamburi.
La sera del 25 alla Scala i commenti nel foyer della platea durante il primo intervallo erano costernati, e, come era prevedibile, cè stato poi qualche abbandono. Tuttavia, gli applausi alla fine dellopera sono arrivati immediati e generosi, come non era successo alla fine dei primi due atti. In sala, del resto, la tensione e lattenzione nella seconda parte erano palpabili: la marcia brutale dei soldati (i tamburi di cui sopra) che letteralmente distrugge la protagonista di questa sconsolata vicenda ha lasciato tutti senza parole.
Matthias Klink, Gabriela Beňačková e Werner Fried. Foto di Marco Brescia & Rudy Amisano.
Lo spettacolo di Alvis Hermanis è stato concepito per la Felsenreitschule di Salisburgo. Costruita come scuola e teatro di equitazione dallarcivescovo della città alla fine del Seicento (ricavata allinterno di una cava di roccia, da cui il nome), la Felsenreitschule è divenuta poi una caserma dellesercito imperiale austriaco, per essere usata dal 1926 in avanti come teatro per il Festival. Hermanis non allestisce solo i suoi Soldaten alla Felserneitschule, bensì li ambienta nella Felsenreitschule (la scritta che identifica il luogo campeggia al centro della scena). È questo lelemento critico forse più forte della sua regia. Come caserma imperiale e luogo di prodezze equestri, la Felsenreitschule è uno dei templi dellonore nazionale austriaco, delle glorie militari dei bei tempi passati per la nazione tedesca in generale, oltre che luogo di culto della buona musica per la ricca borghesia internazionale oggi. Ebbene, Hermanis lo trasforma nel bivacco di una soldataglia corrotta e depravata, che si masturba in gruppo compulsivamente, che consuma in pubblico i suoi amplessi mercenari, e che non arretra di fronte ad alcuna bassezza.
I costumi (di Eva Dessecker), la scene (di Alvis Hermanis e Uta Gruber-Ballher) e le proiezioni di fotografie pornografiche depoca (Sergey Rylko, video designer) situano lazione tra Otto e Novecento, laddove il libretto Zimmermann prevedeva un indefinito «ieri, oggi e domani». Alla vigilia del e durante il centenario della Grande Guerra, Hermanis con i Soldaten mette sotto accusa il mito nostalgico dellAustria felix ai tempi dellImpero, rivelando i lati meno eroici dei suoi eserciti e mostrandoli per giunta nei tempi e nei luoghi del loro abbrutimento estremo. Fatalmente lefficacia di questa critica contro la retorica militarnazionalista si attenua quando lo spettacolo viene accolto in luoghi diversi: al pubblico milanese (ma si potrebbe dire lo stesso per gran parte del pubblico non austriaco o almeno non germanofono) le scelte registiche di Hermanis richiamano in modo molto meno immediato i significati di luoghi, scene, costumi e proiezioni. Ciononostante, lo spettacolo è di grande impatto, anche perché si fa carico di raccontare la vicenda in modo chiaro, rendendo possibile seguire lazione anche nei punti più complessi, e questo è sempre gradito (e forse anche importante, aggiungerei io) quando si presenta unopera «tosta».
Anna-Eva Köck in un momento dell'opera. Foto di Marco Brescia & Rudy Amisano.
I parametri che di solito si usano per descrivere performances operistiche del repertorio standard qui saltano tutti. Non è facile riflettere sullintonazione, sul fraseggio o sullinsieme come si farebbe con Puccini o Wagner per unopera come Die Soldaten; in fondo, non è nemmeno interessante farlo. La Scala per loccasione si è affidata a uno specialista, il direttore Ingo Metzmacher, che di queste opere “moderne” (ma non solo di quelle) è un veterano. La partitura di Zimmermann è molto complessa, lo dicevo, ma questa complessità Metzmacher non la fa percepire come un ostacolo. Può suonare paradossale, e forse anche inopportuno per unopera davanguardia, eppure, nonostante lorchestra enorme, lelettronica, le amplificazioni ecc., con la direzione di Metzmacher sembra che la musica sia una parte dellazione, che scaturisca dalla scena, merito anche degli ottimi complessi del teatro.
Gli interpreti vocali dal canto loro si confrontano con una scrittura micidiale, costretti in tessiture scomode e spesso portati a sfidare i limiti delle proprie possibilità. Ne escono tutti molto bene, ma mi piace qui ricordare la prova di alcuni componenti del cast: Laura Aikin (Marie), Okka von der Damerau (Charlotte), Alfred Muff (Wesener), Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (Pirzel) e Gabriela Beňačková (die Gräfin de la Roche), tutti particolarmente bravi nel fare delle difficoltà tecniche un mezzo espressivo.
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