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Un napoletano tedesco

di Paolo Patrizi
  Fetonte
Data di pubblicazione su web 28/01/2015  

 

Se Hasse, con il suo melodismo sorgivo e il suo belcanto incontaminato, fu il più “italiano” tra i compositori tedeschi del diciottesimo secolo, Niccolò Jommelli fu il più “tedesco” dei compositori napoletani. Incline a un’equilibrata fusione tra vocalità e apparato strumentale, con uno svisceramento espressivo che travalica la stilizzazione psicologica metastasiana, anziché sintetizzare in “affetti” i personaggi li cala in una più realistica verità drammatica. Quindici anni di successi presso la corte tedesca, d’altronde, non trascorrono invano: la ricchezza del linguaggio armonico e la complessità della drammaturgia musicale, in Jommelli, discendono dalle aspettative – che andavano ben oltre le simmetrie strutturali care al melodramma italiano – del pubblico di Stoccarda (per il quale scrisse un capolavoro come Demoofonte) e Mannheim. Ed è quindi una felice circostanza che l’altro caposaldo del suo catalogo operistico, Fetonte, oggi approdi a Schwetzingen: a poca distanza, cioè, da quel Teatro di corte di Ludwigsburg dove vide la luce nel 1768.

 

Con la sua magnifica sala rococò progettata da Galli Bibiena, Schwetzingen (distante una decina di chilometri da Heidelberg: gli spettacoli rientrano appunto nella programmazione del più ampio Theater Heidelberg) si pone infatti, da qualche tempo, come un appuntamento ineludibile per gli appassionati della cosiddetta Scuola Napoletana (lo scorsa stagione toccò al Traetta di Ifigenia in Tauride, vedi recensione). Chissà, dunque, che questo Fetonte – in scena fin dallo scorso novembre, quale omaggio al tricentenario jommelliano – non dia l’impulso a una “Jommelli renaissance” di cui si sentirebbe il bisogno, e che in Italia neppure Muti, nonostante un suo mirabile Demoofonte, è riuscito ad attuare. Resta fermo però che, nella storia del teatro d’opera, Fetonte è uno di quei momenti di svolta che non hanno “fatto testo” presso i contemporanei, né sono stati metabolizzati dai posteri: da un lato per le difficoltà esecutive, che non potevano farne un modello riproducibile, dall’altro per un linguaggio troppo avanzato rispetto alla propria epoca. Lo stesso destino, insomma, che ricorrerà poi in Rossini con Ermione, o in Bellini con La straniera.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Annemone Taake.

 

Quest’allestimento è, per quanto riguarda la Germania, appena il secondo in epoca moderna (il primo fu a Stoccarda nell’86); e le recite scaligere realizzate due anni dopo sull’onda della ripresa tedesca, con una delle più grandiose regie di Luca Ronconi, restano nella memoria dei soli privilegiati che poterono assistervi, non essendo stata effettuata alcuna ripresa audio e video. L’approccio di questa produzione, tuttavia, è assai differente: alla messinscena immaginifica di Ronconi, nel più puro stile del “teatro di macchine”, qui si risponde con una regia moderna nell’ambientazione e concettuale nell’impianto. Ai grandi nomi, oggi fuori carriera (Mariana Nicolesco, Bernadette Manca di Nissa, Luciana Serra) o passati ad altro repertorio (Luciana D’Intino), che costellavano la locandina dello spettacolo milanese, qui fa riscontro un cast di specialisti barocchi, dove a molti nomi della compagnia stabile di Heidelberg si uniscono cantanti ospiti come il nostro Antonio Giovannini.

 

Alle prese con una drammaturgia proteiforme (dove non a caso Proteo, dio marino capace di assumere le più diverse sembianze, è forse il personaggio più affascinante), che unisce la spettacolarità rutilante e paratattica del melodramma barocco alla severità formale e alle ambizioni più articolate della tragédie lyrique, Demis Volpi rinuncia però a una messinscena di variegate sollecitazioni. La sua è una di quelle regie che, come si suol dire, prendono posizione: di sontuosità e “meraviglia” barocca qui si trovano scarsi indizi, e tutto si focalizza su quel versante pensoso e metastorico (il mito ovidiano di Fetonte come riflessione umana e politica) che rappresenta l’altra faccia di quest’opera bifronte. Ciò significa, in primo luogo, eliminare quei momenti esornativi che erano considerati strutturalmente imprescindibili: benché nasca coreografo prima che regista, Volpi sopprime tutte le danze. Il che può apparire contraddittorio, per un’opera che proprio nel côté spettacolare trova una delle sue più vistose ragioni di essere, ma non è un illecito musicologico: nel Fetonte – com’era uso all’epoca – le danze furono scritte da un oscuro compositore reclutato ad hoc, non da Jommelli.

 

Tutto assume estrema consistenza psicologica fin dall’inizio, anche a costo di sacrificare quel senso di progressione (il primo atto ancora molto tradizionale nel suo succedersi di arie, gli altri due all’insegna di un’assai maggiore mobilità drammatica) che caratterizza la partitura. Dunque, ambiente borghese; un Fetonte adolescente introverso in occhialoni e pullover, incantato dagli strumenti scientifici nella sua stanzetta; Climene raffigurata come donna di potere in abbigliamento rigorosamente maschile; Epafo e Orcane, i due re ora rivali ora sodali, declinati l’uno come un boss cafone dei nuovi ricchi, l’altro come una variante contemporanea del “buon selvaggio” di rousseauiana memoria; Proteo, proprio per le sue multiformi figure, inteso come un servo di scena sempre presente (il magnifico quintetto del secondo atto si trasforma, con la sua presenza muta, in un ideale sestetto); i ruoli mitologici come Teti e la Fortuna risolti con un’iconografia così artificiosa da renderli più veri del vero, e ancor più borghesi degli altri personaggi. La scena del volo, poi, con l’utopistica sfida e la disastrosa morte del protagonista, viene risolta attraverso una visualità scarna e un’illuminazione algida: facendone non un’apocalisse, ma una tragedia sussurrata.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Annemone Taake.

 

Gerd Amelung, maestro al cembalo durante le prime recite, nella rappresentazione di cui si dà conto è salito sul podio al posto del titolare Felice Venanzoni, da cui eredita una concertazione nervosa e scattante, il gusto per le sonorità scabre, la sensibilità per un’indagine timbrica mai fine a se stessa, la capacità d’individuare lampi di presagi mozartiani (ancora il quintetto). E il cast risponde molto bene: una squadra di (quasi) sole voci femminili o “al femminile” – a parte Epafo, scritto per tenore, in palcoscenico agiscono soltanto soprani e controtenori – rischia d’ingenerare monotonia, ma la dialettica vocale che s’instaura è così frastagliata che il pericolo è scongiurato.

 

Spicca Giovannini, ottimo vocalista e grande artista, che dietro un’acconciatura alla Jerry Lewis riesce non solo a restituirci tutto lo spessore tragico di Fetonte, ma anche a farne un personaggio icastico al pari dei grandi protagonisti del melodramma romantico. D’altronde, se la tessitura – non proibitiva – mette in luce solo una parte della formidabile estensione di questo controtenore, la lunghezza dei fiati e l’omogeneità di un’emissione sempre penetrante ma mai tagliente ribadiscono tutto il suo grande bagaglio tecnico. Una certa disomogeneità e sonorità aguzze caratterizzano invece, rispettivamente, Artem Krutko e Philipp Mathmann, gli altri due controtenori: ma proprio questo consente, rispetto al protagonista, una contrapposizione canora fertile di spunti drammaturgici. E poi, attenzione: quelle di Krutko (controtenore di complessione vocale più robusta di Giovannini, in linea con la violenza di Epafo insita nel libretto e ancor più esaltata dalla regia) potranno essere disuguaglianze di colore, ma non di fonazione; e certi suoni taglienti Mathmann li riserva quando interpreta l’ambiguo Proteo, mentre laddove incarna il ruolo del Sole (le due parti sono state affidate allo stesso interprete, come avvenne alla première del 1768) la voce si fa, tautologicamente, assai più radiosa e sfolgorante.

 

Il fronte femminile soffriva della defezione del soprano protagonista: tuttavia, va dato atto a Ingabritt Andersson, catapultata all’ultimo momento per una lettura quasi a prima vista (cantava a leggio, e in palcoscenico agiva un mimo), di avere – se non altro – la drammaticità timbrica richiesta da Climene. Femminilità, dolcezza e ottima pronuncia italiana caratterizzano la quasi esordiente Elisabeth Auerbach, facendone più che una semplice promessa. E qualche stridore in alto, alle prese con una tessitura tanto acuta, non infirma la bontà complessiva della prova di Rinnat Moriah, alle prese con i due ruoli di Teti e della Fortuna. Un po’ zoppicante, invece, la quadratura musicale del coreano Namwon Huh. Ma Fetonte non è opera da tenori.

 

 

Fetonte



cast cast & credits
 

Un momento dello spettacolo. Foto di Annemone Taake.

 
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