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Risibile equivoco di mafiosi provinciali

di Gianni Poli
  L’ispettore generale
Data di pubblicazione su web 19/01/2015  

 

Il mio ricordo più lontano, legato alla commedia di Gogol, va all’edizione del Teatro Stabile di Genova del 1959, con la regia di Virginio Puecher e fra gli interpreti Franco Parenti e Vittorio Sanipoli. Il più recente e significativo, all’allestimento dato dallo stesso Teatro nel 2001, con la regia di Matthias Langhoff e protagonisti Jurij Ferrini ed Eros Pagni rispettivamente nelle parti del funzionario Chlestakov e del sindaco Anton Antonovic: spettacolo riepilogativo di stili e risorse del Teatro d’Arte, compreso un omaggio a Mejerchol’d e al costruttivismo. Sotto quelle impressioni, assisto allo spettacolo ideato e diretto da Damiano Michieletto, preceduto da segnali d’innovativo aggiornamento e ne esco alquanto perplesso e deluso.  

 

Trama e tema dell’opera del 1836 riprendono un motivo già introdotto sulle scene russe da un autore minore, Kvitka-Ovsov’janenko, col suo Baraonda in una città di provincia (1827). Il grande scrittore dilata un aneddoto forse suggeritogli dall’amico Puškin. Un avventuriero, piccolo funzionario svogliato e indebitato, di passaggio in una cittadina di provincia, è scambiato dai notabili per un ispettore in missione fiscale e sfrutta abilmente coloro che, con la coda di paglia, lo adulano e tentano di corromperlo. Dopo avere approfittato dell’occasione, s’invola appena prima dell’arrivo del vero ispettore. Così si compie in commedia un capolavoro di satira e di introspezione psicologica e comportamentale.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Serena Pea.

 

Il regista nel mettersi alla prova con un’opera classica, dichiara in un’intervista: «Interessante ingaggiare una sfida con un testo mordace e corposo come questo, suddiviso in ben cinque atti, che a livello di portata drammaturgica equivale ad affrontare una commedia di Shakespeare. Per tutto ciò pensai che avrebbe avuto tutti gli ingredienti per diventare uno spettacolo efficace». Efficacia e fascino che intende confermare in un adattamento che sfoltisca i numerosi personaggi, scorci le loro battute e con l’ambientazione e la recitazione riporti l’azione a più coinvolgente attualità. A questo proposito, Michieletto annota: «Anche se la prima idea era spingere molto il testo creando dei paralleli e dei riferimenti, anche didascalici e scoperti, a personaggi politici di oggi. Poi mi sono reso conto che basta leggere un giornale e si sprofonda in una situazione molto peggiore di quella descritta dalla commedia. […] Perciò, alla fin fine, mi sembrava banale aggiungere cronaca su cronaca. Allora ho preferito creare un distacco estetico e narrativo, nutrendomi comunque della complessità del tempo in cui vivo, senza però far diventare lo spettacolo uno specchio dei problemi e della miseria in cui siamo immersi». Ne deriva una rappresentazione in due tempi, della durata di due ore e mezzo, dai registri caricaturali e chiassosi.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Serena Pea.

 

Dalla Russia rurale e retrograda dell’inizio Ottocento si passa a un paese di fine Novecento, colto in un campione di società corrotta e volgare, ignorante e sporca, non soltanto moralmente. Il Sindaco amministra la comunità dietro il bancone in legno del suo bar, illuminato da plafoniere al neon, fornito d’un televisore residuato e d’una slot machine contro tappezzerie a brandelli. Nel locale, fa da cameriera la figlia adolescente, mentre ascolta canzoni popolari in cuffia e la moglie si trascina annoiata in vestaglia, quasi una sgualcita entraîneuse di passaggio. Là si incontrano i notabili, miserabili e loschi nei vestiti goffi, con accessori - cappelli o berretti e occhiali scuri - convenzionalmente mafiosi. Dal vecchio ambiente rurale si accede, nella scenografia verista di Paolo Fantin, a una contemporaneità già obsoleta e pacchiana, miseranda per aggravio di responsabilità umane. Gogol’ trasformava lo spunto aneddotico in potente quadro di costume e di caratteri, nel genere commedia degli errori e dramma a suspense comica, equilibrato e divertente, eppure criticamente affilato e sociologicamente complesso. Per il nuovo regista-drammaturgo è un pretesto per dissestare quella struttura e sottolineare lo schema di rapporti guidati da una paura originaria e da reazioni scomposte e violente, in sodalizio fra complici e conniventi. L’illegalità diffusa è infatti ormai automatica in personaggi rappresentativi di un’umanità compromessa e irrecuperabile. 

 

Gli effetti si misurano sull’impostazione dei personaggi e sulla recitazione, in cui la caricatura e la parodia attingono a diversi modelli cine-televisivi, che gli attori sembrano assimilare con convinzione. Stefano Scandaletti infonde a Chlestakov un tono pavido e imbelle, poi millantatore col crescere dell’importanza acquisita. Esulta e s’infervora nell’invenzione d’avventure e prerogative inesistenti e appare opportunista cinico e scaltro, mentre la sua comicità dovrebbe nascere dalla metamorfosi impostagli da un destino insperato. Non manifesta euforia per la gratuità dell’occasione, non stupore per il miracolo che gli si presenta, ma soltanto esaltazione per la razzia che gli viene offerta. La sensibilità che raccomandava l’autore pare un dettame trascurabile all’interprete moderno, che la riduce a compiacimento per l’ovvietà d’un malaffare dilagante. Il protagonista è accompagnato da un Osip (Pietro Pilla) assolutamente sminuito nella funzione di interlocutore e antagonista essenziale, tale da indurre la critica al paragone con Sganarelle compagno di Don Juan. Il Sindaco di Alessandro Albertin è il calco di un piccolo boss nostrano, con occhiali scuri, completo scuro, in canottiera quando si sbraca, abbandonandosi al sollazzo dell’illusoria ascesa sociale. Fra gli anacronismi, usa la pistola contro i mercanti questuanti di privilegi e temibili latenti delatori, che banalizza in un luogo comune. Smessa la vestaglia, Silvia Paoli in lamé offre di Anna Andreevna la scontata sudditanza alla vanità, alla desiderabilità e al mito della ricchezza. Rivaleggia acida e rude, vamp svampita, con la figlia; velleitaria nell’accettazione masochista del ruolo di oggetto sia presso il marito, sia presso il corteggiatore occasionale, al quale si esibisce sfacciatamente disponibile, con gestualità e risate d’una volgarità immediata e imbarazzante. La giovane Mar’ja mantiene una sua irriducibilità, fra scempiaggine e comprensibile debolezza al fascino dell’uomo maturo. Fra i tavolini è teenager o “paninara”; preparandosi alle nozze, assume il ruolo (qui sacralizzato dal vestito nuziale coronato dalle luci sul capo) d’una falsa (perversa?) innocente. Ciascun funzionario, collaboratore o rivale del primo cittadino, viene accomunato sia nel linguaggio sia nell’aspetto, fino a non distinguerne il profilo e il ruolo, mentre l’autore evidenziava la varietà dei tipi e delle situazioni rappresentate. Così il sovrintendente alle Opere Pie (Michele Maccagno) s’adatta al mercante, come l’ispettore scolastico Luka Lukic (Fabrizio Matteini) diventa senza trucchi il commissario di polizia. Il Giudice di Alberto Fasoli non si turba nel contraddirsi, infedele alla propria funzione. I proprietari terrieri Dobcinskij e Bobcinskij, i «due pettegoli della città», eludono la concezione dell’autore, legata alla «passione del racconto che ha annullato ogni altra loro occupazione. […] Individui creati dal destino per le necessità altrui […] si assomigliano in modo straordinario» (Avvertenza dell’Autore). Spiccano ora le stature sensibilmente differenti degli attori, nell’accoppiata del protagonista e della sua “spalla”, ricorrenti a gags da avanspettacolo. 

 

Il crescendo clamoroso e sguaiato (scatenato dalla promessa di matrimonio di Chlestakov a Mar’ja) punta deciso al goliardico travesti e concede improvvisazione dilettantesca alla follia orgiastica del finale, in cui una grande piscina gonfiabile invade il palcoscenico per accogliere i festaioli danzanti con le bottiglie di vodka alle labbra. Allora interviene Mar’ja a contrappasso, infilando in bocca a ciascuno una banconota e impacchettando tutti i personaggi in un unico gigantesco involucro di cellophane. La musica trionfalmente epica e dissonante, prolunga il momento nelle rutilanti luci da discoteca proiettate nei lustrini e nel kitsch. Risponde qualche risata isolata troppo sonora nel pubblico, traversato in genere da sorrisi benevoli e disposto ad applausi di rito.     

 

 

L’ispettore generale
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