«Atroce, abominevole, nauseante», se ci vogliamo attenere al drastico giudizio dellautore, che non sempre è il miglior giudice di se stesso (Verdi ebbe a dire della sua Alzira «Quella è proprio brutta!»), Das Liebesverbot è il frutto acerbo ma tuttaltro che trascurabile di un Wagner ventitreenne, al suo secondo esperimento operistico e alla prima opera rappresentata: Die Feen, scritta poco prima, avrebbe conosciuto il palcoscenico solo dopo la morte del compositore. Ma se Le fate, incanalandosi nei binari della Zauberoper, rientravano in un codice radicato nellhumus musicale tedesco, questo Divieto damare gioca invece la carta epigonico-parodistica: il giovane Richard, qui, tenta di replicare gli stilemi drammaturgici e linesausto melodizzare dellopera buffa italiana, sia pure filtrata da abbondanti influssi francesi (Auber in primis).
Poi, certo, anche poco più che ventenne Wagner resta sempre un autore non freschissimo: la tendenza al gigantismo si fa strada pure in questo esperimento buffo (non a caso la dicitura del libretto è «Grande opera comica»); le velleità didascaliche e dimostrative (siciliani che assecondano gioiosamente gli impulsi della natura versus tedeschi che severamente li respingono) appesantiscono il respiro farsesco; ed è quasi superfluo aggiungere che del profondissimo spessore umano dellaltro, e assai più tardo, Wagner in chiave di commedia – quello dei Maestri cantori – qui è difficile scorgere le tracce. Anche la cornice etica e sociale della fonte shakespeariana è abbastanza latitante (alla radice del Divieto damare cè Misura per misura), mentre restano i pregi strettamente musicali: la solidità architettonica dellouverture, la bellezza trasognata ma innervata da palpiti drammatici del duetto tra i soprani, la capacità di giocare con le fisionomie vocali dei personaggi in funzione di specularità drammatica (il tenore eroico e quello più liricizzante per i due amici protagonisti, il soprano lirico e il Falcon per delineare la dialettica della solidarietà femminile).
Un momento dello spettacolo. Foto di Fabio Parenzan
Litalianità cui lopera aspirava (anche nel testo poetico: il Wagner librettista qui preferisce ricorrere allo strumento tradizionale della rima piuttosto che a quello, poi per lui prediletto, dellallitterazione) resta comunque relativa. I momenti farseschi sono assai più “grassi” che realmente scoppiettanti: il personaggio di Brighella sembra una filiazione dellHanswurst teutonico piuttosto che un lascito della nostra commedia dellarte, e pure la sua scrittura da “basso profondo comico” – che occhieggia allOsmin mozartiano e anticipa il Barone Ochs del Rosenkavalier – ha poco da spartire con il buffo allitaliana, veleggiante verso lidi più baritonali. Daltronde, se lidea di Wagner era celebrare la “naturalità” del sud a fronte della rigidità tedesca, alla resa dei conti limpressione è opposta: il personaggio più affascinante resta quello del cattivo e represso Friedrich, e la sua paura di lasciarsi andare, con lattrazione-repulsione verso il mondo dei sensi che ne è linevitabile corollario, sembra anticipare – sottopelle, beninteso – macerazioni e alienazioni di certi grandi personaggi wagneriani a venire.
Lallestimento del regista Aron Stiehl (una coproduzione tra Lipsia e Bayreuth, ora approdata nella wagneriana Trieste) accentua tale sensazione. Friedrich qui è il classico uomo di potere consapevole che la mancanza di controllo conduce il popolo allanarchia, mentre i siciliani appaiono più ferini che gioiosi, più irrazionali che realmente dionisiaci: i costumi metastorici di Sven Bindseil li dipingono come una fauna di animali metropolitani barbarici e postmoderni, vicini a certe notti di Halloween dei giorni nostri piuttosto che al carnevale “umanistico” dipinto da Wagner. Tutto questo, però, non si traduce in una forte lettura socio-politica, né la regia ha tale idiomaticità da ribaltare fertilmente lassunto drammaturgico dellautore: lo spettacolo procede a strappi; gli innesti farseschi di Wagner – già non sempre scioltissimi del loro – vengono raddoppiati da qualche artificioso siparietto in italiano, con tanto di riferimenti a mazzette e tangenti, concepito ad hoc per questa trasferta triestina; e tutto limpianto scenico sincanala nei canoni di una generica bruttezza, anziché rispondere a quel gusto disadorno, indifferente a ogni pregiudizio estetico, che caratterizza le migliori regie tedesche allinsegna del Konzept.
Oliver von Dohnányi ottiene dallorchestra di Trieste uno spessore fonico da grandi occasioni, anche se la gamma dinamica risulta a tratti un po angusta: la leggerezza del comico – già piuttosto latitante in partitura – qui è pressoché assente, né i momenti di ripiegamento lirico appaiono troppo curati. Piace invece la forte plasticità della sua lettura musicale, il saldo polso narrativo del concertatore, la capacità dilluminare quegli squarci (la trama leitmotivica, taluni cromatismi melodici…) del Wagner che verrà. E anche il coro risponde molto bene.
Un momento dello spettacolo. Foto di Fabio Parenzan.
Solisti alterni, ma tutti compenetrati. Più baritono che basso, Tuomas Pursio difetta un po di robustezza per raffigurare con giusta icasticità canora quella violenza del potere e quei tormenti della carne che fanno di Friedrich un vilain giganteggiante sul resto dei personaggi: ma non si può negare che linterprete sia sagace ed espressivo, senza bisogno di soverchi istrionismi. Fra le donne spicca invece la Mariana di Anna Schoeck: soprano leggero, a giudicare dai ruoli indicati nel curriculum, capace però di un accento drammatico e un colore ombreggiato quasi da Falcon.
Laltro, più protagonistico soprano – la novizia Isabella, monaca intraprendente per amore e destinata a fine non claustrale – era incarnato con elegante lirismo da Lydia Easley, mentre la coppia dinseparabili amici Luzio e Claudio trovava in Mark Adler un vocalista corretto oltre che un simpatico attor giovane, e in Mikheil Sheshaberidze un Heldentenor piuttosto scompaginato, vero anello debole dellintera locandina. Saporoso, e pure di solida tenuta vocale, il Brighella di Reinhard Dorn, veterano tuttaltro che in disarmo.
Dispiace invece linadeguatezza di alcuni elementi italiani del cast, a cominciare dalla Dorella – un ruolo che Wagner non limita al cliché della servetta scaltra – di Francesca Micarelli. Ci si riscatta almeno con Federico Lepre: che nel personaggino sgusciante di Ponzio Pilato (nomen omen) unisce una saldezza da tenore tuttaltro che comprimario a un talento scenico da caratterista di gran classe.
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