Don Giovanni è uno di quei personaggi che, insieme ad Edipo e Amleto, ha permanentemente occupato pagine, pensieri e riflessioni. Conciato in tutti i modi, liberamente riproposto, riempito via via di filosofie alla moda o strumentalizzato a esemplificare mali e indecenze sempreverdi, la sua fortuna ha attraversato i secoli, ma ciò che a noi interessa in questa sede non è ricostruire stratificazioni e debiti, non è la correttezza filologica delloperazione, bensì valutare lefficacia del Don Giovanni portato in scena da Alessandro Preziosi, interprete e regista dello spettacolo, ospite del Teatro Verdi di Pisa.
Questo Don Giovanni piace e assolve il compito che la produzione si era prefissata (e che da qualche anno persegue proponendo testi classici come Amleto e Cyrano): mettere in scena spettacoli rivolti al vasto pubblico, al pubblico giovane, e che siano capaci di “accendere nella fantasia degli spettatori il piacere”. Chiariti gli intenti “il fine giustifica i mezzi”. Ben venga allora questo Don Giovanni cinematografico e popolare, divertente e spettacolare: è anche così che si fa il teatro.
Un momento dello spettacolo. Foto di Noemi Commendatore
Ladattamento drammaturgico di Mattei recupera lantefatto del duello tra Don Giovanni e il Commendatore ed è da questo flashback che prende vita il quadro di Don Giovanni. Unenorme cornice dorata costituisce larco scenico e indirizza lattenzione dello spettatore verso la tela di fondo. Landa desolata dai toni pastello, che rimandano ai paesaggi surrealisti di Dalì, limmagine presto si anima, si scioglie, muta e così farà per tutto il tempo della pièce. La bidimensionalità della pittura è sfondata due volte: dagli attori, in scena dentro il quadro, e dalle proiezioni sulla tela. Limpianto scenografico di Fabien Iliou è, con la coppia Don Giovanni-Sganarello, laltro indiscusso protagonista di questa regia. Lo scheletro è semplice: una struttura con tre aperture ad arco, chiuse alloccorrenza con panelli scorrevoli, tutto il resto lo fanno le proiezioni e le luci (Tiberi). Attraverso il linguaggio che gli è proprio, dunque, il disegno scenografico si fa carico di segnalare motivi e letture ulteriori (come i fumi-flutti che dominano la tela per i primi tre atti e che rimandano alla lettura kierkegaardiana – cara al regista - di Don Giovanni come figura fluttuante che non acquista mai contorni né consistenza), oppure si rende funzionale consentendo, attraverso le proiezioni, di creare spazi tridimensionali, entro cui gli attori si muovono e, ancora, di risolvere attraverso “effetti speciali”, quei coups de théâtre che il testo prevede.
«[...] Non è che labbozzo del personaggio, troppe pennellate ci vorrebbero per dipingerlo intero», così il pittore-Sganarello, Nando Paone, disarticolata-sottile-ambigua spalla, introduce il Don Giovanni-Preziosi, libertino in perfetto stile Louis XIV, belloccio-affettato-effemminato… ma non solo. Lambiguità-contraddittorietà del testo risiede infatti nella coppia servo-padrone e nelle dinamiche attraverso cui i due personaggi interagiscono, quasi formando un personaggio altro, composto dalle due rispettive facce di una medaglia. Si badi che se luna finirà dannata, laltra si trascinerà sconfitta. La coppia Paone-Preziosi sembra scegliere una linea interpretativa di scherzosa complicità, e le schiette confessioni del servo, come i suoi saggi, a volte duri, rimproveri si smorzano in una risata o in un lazzo. La cifra stilistica schiaccia locchio a un registro manierato da tarda Commedia dellarte, in cui i gli attori, dalle pose artefatte, sembrano muoversi sulle punte dei piedi. La verticalità suggerita dallaltezza dei due interpreti è esasperata dai costumi, aderenti nella parte inferiore e sulle braccia, danno leffetto di materiali allungati, componibili a piacere. Di contro tanta suavitas è poi bilanciata dalla pesantezza dei personaggi di estrazione sociale o culturale più bassa che sembrano muoversi più sul piano dellorizzontalità, quasi a denunciare un baricentro abbassato.
Un momento dello spettacolo. Foto di Noemi Commendatore
Il gioco coreografico della recitazione degli attori è infatti estremamente curato; più volte la coppia protagonista si ritrova bloccata in figure che ne sottolineano la specularità: nel primo atto, ad esempio, il dialogo tra Sganarello e Don Giovanni è scandito dallintermittente abbassarsi e rialzarsi dei due personaggi che, tenendosi per una mano e irrigidendo il braccio corrispondente, danno lidea del movimento meccanico, quindi comico, di unaltalena o di una bilancia. Ancora gioco di coppia è lo strano albero che si trovano a comporre quando, in fuga nella foresta, mimano il siparietto delle mortifere qualità del vino emetico. Altre volte il movimento diventa corale e quando interessa più personaggi sembra privilegiare la linea retta. “Il gioco dellasino” nel colloquio iniziale con Donna Elvira (Lucrezia Guidone tragedienne-innamorata che dosa bene lo struggimento e la farsa) prevede lutilizzo di una diagonale. La scena dei servi di casa Tenorio nel quarto atto ci mostra figurini che sembrano muoversi su dei binari, orizzontalmente e in profondità.
Ladattamento drammaturgico si concede delle piccole libertà di cui apprezzabile è quella relativa al monologo del padre, Don Luigi - che appare coperto da un mantello e incorniciato da una porta di fondo -, proferito invece dallo stesso figlio scellerato che “fa il padre” raccontandosi una predica ormai imparata a memoria. Con il giusto dosaggio di pathos e sberleffo, con quei movimenti sinuosi da dandy improvvisamente inceppati nei fili di una marionetta, Preziosi strappa applausi a scena aperta.
Scivolare verso la fine è inevitabile, la Statua del Commendatore (in proiezione) è già sulluscio pronta a stringere la mano a quel mèchant homme, blasfemo e ateo bestemmiatore di tutti i tempi, stratega di ieri, oggi e domani, simulacro resistente più della roccia stessa di tutta lipocrisia che ormai non ci scandalizza più, potrà pagare la sua pena solo nella finzione della scena, ma coerentemente al ruolo se ne andrà senza pagare il conto. Mentre il compare brucia tra le fiamme, Sganarello, ora Arlecchino dalla voce di baritono, conclude la scena inveendo contro tutti per non essere stato pagato. Le note di Mozart sugellano un finale che di tragico ha solo il riferimento con lattualità: «Non ci sono che io, di disgraziato. Chi mi pagherà? Chi mi pagherà? Chi mi pagherà?»
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