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Vocazione (Per il prossimo spettacolo)

di Mariangela Milone
  Vocazione
Data di pubblicazione su web 24/11/2014  

 

Recitar è la prima parola che viene pronunciata nello spettacolo Vocazione di Danio Manfredini e a dirla non è l’attore ma una registrazione che diffonde la nota aria d’opera tratta da Pagliacci. Recitare è anche quello che spera di poter ancora fare il primo anziano personaggio a raggiungere la ribalta con il copione del Re Lear di Shakespeare in tasca e l’aria dell’eterno attore, o dell’eterno insoddisfatto, incisa in ogni piega della pelle del volto di Manfredini. Tutte le rughe e i solchi degli anni scivolano via dall’attore davanti ai nostri occhi mentre si libera dell’anzianità durante un cambio di scena a vista e va ad aprire le braccia in una lotta contro un vento immaginario che spira dal suo corpo latteo e lo trascina in una danza della libertà, suprema aspirazione dell’uomo e insieme essenza della vocazione teatrale.

 

Il grido rauco di un gabbiano che cerca di volare apre alla scena tra Kostja (Vincenzo Del Prete) e Nina (Danio Manfredini), tratta dal testo di Cechov. Pezzo dopo pezzo il candido corpo di Manfredini viene mangiato dagli abiti scuri del personaggio, dalla sua parrucca gialla, dall’andatura interdetta di Nina. Un nuovo volto, quello della maschera in lattice che l’attore indossa durante il momento di vestizione a margine del palco, svela allo spettatore i primi gesti femminili di un corpo che fino a poco prima avevamo quasi immaginato coperto di piume. Tutto quello che di fluente affiora in questa trasformazione si accartoccia nell’impasse esistenziale dei personaggi, bloccati in uno scambio di battute e in una partitura di gesti nella quale ci immergiamo come se avessimo già visto tutto intero Il gabbiano, fino al liberatorio rimbombo dello sparo che proviene da dietro le quinte.

 


Danio Manfredini in un momento dello spettacolo.
Foto di Manuela Pellegrini
 

Al centro di una scena idealmente ribaltata – che mette in mostra con ironia le finzioni, i travestimenti e le miserie cui sono costretti gli artisti fuori dal palco –, prende forma il ménage quotidiano tra un grande ma vecchio attore e la sua scalpitante compagna. Nelle mani della donna (Vincenzo Del Prete en travesti) la barba che l’attore deve indossare prima di entrare in scena è mossa con furia gesticolante, quasi come uno straccio; poi passa nelle mani dell’attore che inizia con lentezza rispettosa ma annoiata la sua vestizione, mentre una folta parrucca argentea viene sconquassata dalla compagna che gliela infila di sghimbescio sulla testa pur di liberarsene e andare urgentemente ad allestire un gabinetto improvvisato in un secchio di latta.

 

Si scende ancora. Ci siamo allontanati moltissimo dalla prima immagine dello spettacolo, quella dell’anziano attore che sogna di mettere in scena il suo Re Lear e, nell’attesa di questo importante momento, sta fermo in piedi con il suo copione stretto in mano, protetto da un telo bianco che lo preserva dai rischi della ribalta. Stiamo per assistere a una nuova trasformazione, entriamo nei bassifondi dei rapporti umani, vediamo una donna abbandonata dalla dignità rifarsi continuamente il trucco in disfacimento e un uomo impeccabilmente vestito trasformarsi in bestia mentre la schiaffeggia e la umilia. Più che a rifarsi il trucco Manfredini sembra intento a cancellare faccia e personalità del suo personaggio a colpi di rossetto. Quello che nel film di Fassbinder (Un anno con tredici lune, 1978), dal quale la scena è tratta, era visivamente realizzato con il sangue delle mucche squartate in un macello, in scena si tramuta in una serie di schiaffi, schiocchi e conseguenti macchie di trucco rosso sulla pelle.

 

All’immagine del palco come ring fa seguito il monologo di Amleto che l’attore recita lottando con se stesso, contorcendo l’animo e le membra in quella che all’inizio può sembrare una danza ma che a poco a poco si trasforma in una corsa, in un allenamento; sembrano partire dei colpi dalle braccia, dei pugni. Una visione fugace, fulminea, si sovrappone alla scena: Manfredini è a torso nudo e indossa una vestaglia nera il cui cappuccio sollevato lo mostra come un lottatore; non uno qualunque, ma uno che si potrebbe identificare con precisione. Sembra il Rocky della saga cinematografica (di J.G. Avildsen/ S. Stallone, 1976-2006) che cerca le motivazioni del suo combattimento nelle parole di Amleto. Oppure sembra Amleto che attraverso l’attore si carica della memoria del personaggio di Rocky.

 

Le scene continuano a succedersi, dentro e fuori dal teatro, dentro e fuori anche dal cinema e dalla televisione, sempre parlando la lingua dello spettacolo dal vivo e sempre mantenendo un rapporto strettissimo con il pubblico. La malinconica rassegnazione con cui l’attore si rivolge alla sua platea è venata da una sottile e vivace ironia che pervade l’intero spettacolo. Alle melodie scelte come colonna sonora, è affidato il compito di suscitare nello spettatore un senso d’attesa mediante un ritmo dilatato e commosso, da abbandono o da fine di partita, apparentemente in contrasto con colori e materiali degli oggetti di scena che si fanno via via più esasperati ed eccentrici.

 

Abbiamo visto l’attore lavorare il proprio volto come fosse di creta per portare in scena la vecchiaia non risolta del primo personaggio, intrappolato nell’attesa di uno spettacolo in cui forse non avrà mai il coraggio di recitare; poi lo abbiamo visto sprofondare nella maschera in lattice che lo ha accompagnato attraverso grandi testi drammaturgici; lo abbiamo visto recitare con raffinatezza e poi lo abbiamo visto abbrutirsi, abbiamo guardato la forza e l’eleganza del suo corpo teso e subito dopo lo abbiamo osservato spogliarsi e rimanere quasi nudo come un qualsiasi uomo che torna dal lavoro e si cambia d’abito. A tratti forse siamo rimasti un po’ delusi perché avremmo voluto vedere ancora di più, ma bisogna riconoscere che non lo abbiamo mai guardato da lontano, non lo abbiamo mai spiato. La sensazione era che fosse lui a portarci nel bel mezzo del suo lavoro.

 

In una di quelle scene che sembrano quasi di passaggio tra un frammento e l’altro delle opere di Cechov, Bernhard o Harwood, Manfredini dà il segno di quello per cui, in uno spettacolo come questo, sta lottando. È proprio lui a dirlo e a realizzarlo in scena: il lavoro di un attore a teatro sta tutto nello scegliere di piazzare una sedia in un punto preciso, o un po’ più in là. Una sola, vecchia sedia scolorita ma ben funzionante, collocata in modo da dominare una girandola di piume e scarpe glitterate dai tacchi scomodamente vertiginosi che hanno un amaro sapore di attualità, ha più valore del confusionario accatastare sedie e sedie in una scultura di citazioni entro cui, a rimanere intrappolato alla fine, è solo il sedile su cui è dipinta un’indifesa e attonita giovane – forse Ofelia, quasi metafora di uno spettatore tenuto a distanza quanto più lo si vorrebbe tra i protagonisti –.

 

Quando può permettersela, l’attore paga a un prezzo alto la sua libera solitudine. A volte invece non può fare altro che scendere a compromessi, deve addirittura accantonare la sua maestria nel modellare la propria voce per mettersi davanti a un microfono. Anche se è cosciente di essere tutt’altro che indispensabile e spesso solo un estraneo per lo spettatore, l’attore può scegliere di dedicargli fino alla fine ogni attenzione possibile, compreso l’ultimo dolente saluto con cui si chiude questo spettacolo. Manfredini recita il suo ultimo monologo in biblico su tacchi altissimi, poi si volta di spalle e si prepara ad andare in scena dall’altra parte di quel telo che aveva oltrepassato all’inizio dello spettacolo, sapendo che il mestiere che ha scelto è un eterno canto del cigno da offrire al pubblico, finché sarà ancora presente in sala, anche per il prossimo spettacolo.

 

 

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