A.J. Manglehorn (Al Pacino), nonostante letà pensionabile, fa ancora il fabbro nella piccola cittadina di provincia dove vive. Le sue giornate si trascinano lente e affaticate come i suoi piedi, tra piccoli interventi di lavoro, i problemi di salute dellamata gatta Fanny e le visite in banca del venerdì, che con la scusa dellabituale deposito di denaro, offrono allanziano uomo la preziosa occasione di fare due chiacchiere con limpiegata Dawn (Holly Hunter), accompagnate da una ciambella e un caffè. E questo è forse lunico barlume di socialità che la vita offre ancora al protagonista. Per il resto è un deserto di affettività, costellato qua e là di radi e fallimentari incontri col figlio ormai adulto, che ha una visione della vita del tutto divergente dalla sua. Con un matrimonio fallimentare alle spalle, lunico faro di speranza nella vita di Manglehorn sembra essere la sua utopistica ossessione per un amore perduto di gioventù, salvo poi capire - in extremis - che il sogno di un tempo ha finito col trasformarsi in un limite per il suo presente.
Con una trama piuttosto semplice, imperniata sulla dimensione emotiva del protagonista e dei quasi assenti comprimari, Manglehorn, il nuovo lungometraggio di David Gordon Green è una storia di rinascita, una parabola edificante dedicata alla terza età, che ruota tutta attorno ai monologhi di Al Pacino, scaldati dalla fotografia rossastra di Tim Orr.
Niente di speciale, eppure tutto sommato il film funziona, è piacevole, scorre (lentamente) e la regia di Green si distingue per soluzioni visive come le dissolvenze incrociate “allucinate”, utilizzate in funzione delle ellissi temporali.
Certo il film risulta manieristico, dove la maniera è quella di Al Pacino e il suo personaggio sembra far eco a innumerevoli altre interpretazioni dellattore, ma lironia disseminata qua e là nel corso dello svolgimento salva il film dal rischio di risultare stucchevole e linterprete principale da quello di trasformarsi nella caricatura di se stesso. Siamo al limite però.
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