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La forza della finzione

di Paolo Patrizi
  La forza del destino
Data di pubblicazione su web 25/08/2014  

 

La forza del destino – anzi, Die Macht des Schicksals – è un’opera cruciale nella percezione verdiana dei tedeschi. Il ripensamento drammaturgico di Verdi che si ebbe in Germania tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso partì da qui, grazie alla traduzione e al rimontaggio del libretto operati da Franz Werfel: e se nel 1926, quando la nuova sceneggiatura dell’opera vide la luce, nessuno era consapevole che – così facendo – si dava il via alla Verdi renaissance tedesca, sta di fatto che, di tale rinascita, beneficiò pure l’Italia. Il Verdi retorico (al di là dell’encomiabile opera di ripulitura toscaniniana), cristallizzato e circoscritto a pochi titoli che continuava a imperare da noi, sull’onda germanica si aprì verso capolavori dimenticati come Don Carlo e Simon Boccanegra (che pure beneficiarono della traduzione e degli accomodamenti di Werfel); mentre opere mai del tutto uscite di repertorio, ma comunque poco coltivate e ancor meno comprese, come appunto La forza del destino, emersero in tutto il loro spessore sperimentale.

 

Oggi siamo consapevoli che Verdi era un drammaturgo troppo grande per aver bisogno di editing, e che sforbiciate e spostamenti nulla aggiungono, anzi qualcosa sottraggono. Ma che la “versione Werfel” mantenga un’inoppugnabile validità per il gusto tedesco è confermata da questa Forza del destino andata in scena a Monaco, che ripropone il montaggio werfeliano usando la versificazione italiana di Piave e Ghislanzoni: il quadro dell’accampamento si conclude dunque con l’agnizione dei due nemici, mentre la parte “di colore” con Melitone e Preziosilla precede a mo’ di diversivo, con vari tagli e senza aspirare a quella pari dignità drammaturgica che, nell’originale, attribuiva invece proprio al “siparietto” umoristico l’onore di concludere l’atto. In ogni caso è su questa versione che ha lavorato Martin Kušej: e poiché ne è scaturita forse la più bella regia verdiana dell’anno del bicentenario (lo spettacolo è nato nel 2013, ma la Bayerische Staatsoper continua a tenerlo in programmazione) bisogna prendere atto che la riscrittura di Werfel è stata un buon traino.


 


Foto di Wilfried Hoesl

 

Regista di prosa personale e visionario, che il transito verso regie operistiche in contesti star system ha poi un po’ banalizzato, con questa Forza del destino Kušej torna alla sua vena più autentica: non cerca di far quadrare i conti in un intreccio comunque improbabile, ma lavora sui personaggi a prescindere dagli snodi della trama, dipanando una serie di psicologie capaci d’innestarsi con forte evidenza teatrale anche nel plot più farraginoso. A guadagnarci è soprattutto il carattere più stereotipato, ossia Carlo di Vargas: qui non il consueto hidalgo assetato di vendetta, ma una creatura traumatizzata e ferita, travolta da un vortice incontrollabile. Prendendo alla lettera il precetto verdiano dell’«inventare il vero», e affidandosi quasi impudicamente alla finzione del teatro, Kušej ce lo mostra bambino all’inizio dell’opera, occhialuto e in pullover verde accanto al padre e alla sorella: è l’avvio d’un soffocante “gruppo di famiglia in un interno” – tutti compunti a tavola durante la sinfonia, compresi la cameriera e il confessore di casa – destinato a esplodere sotto la pressione, appunto, del destino. E quando il colpo di pistola uccide il marchese, il piccolo Vargas esce dall’infanzia e perde l’innocenza: passa correndo dal padre morente alle quinte; rientra sempre di corsa, con gli stessi occhiali ma un pullover più grande, perché al posto del bambino ora c’è un ragazzo; ancora una corsa dietro le quinte, e ai piedi del padre appare finalmente – sempre occhialuto e in maglione verde – il baritono Ludovic Tézier, interprete del ruolo.

 

La finzione teatrale è dunque il veicolo per restituire veridicità a una storia spesso assurda, e non a caso Kušej affida allo stesso interprete la parte del marchese di Calatrava e quella del Padre Guardiano: soluzione non inedita (la tentò David Pountney a Vienna), ma che solo in questo spettacolo appare naturale e necessaria – Vitalij Kowaljow non cambia abito né trucco, il padre di Leonora e il superiore del convento sono a tutti gli effetti la stessa persona – mostrando con chiarezza il legame sotterraneo tra paternità biologica e paternità spirituale, rifiuto dei voleri familiari e desiderio di espiazione. D’altronde, qui un po’ tutti i personaggi si radicano in un’unità di azione contrastante con il “tempo reale” della vicenda: il soliloquio di Vargas, nel terzo atto, si svolge al cospetto del corpo esanime di Don Alvaro, quando questi in realtà è sotto i ferri del chirurgo; mentre il gioioso Rataplan di Preziosilla si trasforma in una riflessione allucinata sugli orrori della guerra, con il coro steso al suolo dietro l’enorme voragine di un muro bombardato. Più che la religione, infatti, è proprio la guerra – massacro tra popoli speculare al massacro tra singoli narrato tra libretto – il vero protagonista dello spettacolo: la fede resta in filigrana, mentre gli abiti borghesi del Padre Guardiano e degli altri monaci ci ricordano come, in Verdi, il sentire religioso resti sempre profondamente laico.

 

Sorprende poi, in una regia così pregna di valenze simboliche, la cura naturalistica dei dettagli. Perfino un ruolo defilato come Curra risulta cesellatissimo, grazie al talento canoro e attoriale di Heike Grötzinger: una cameriera che odia i padroni, pronta a favorire la fuga della signorina non per solidarietà femminile ma per rovinare la rispettabilità dei signori, e sempre compulsivamente con un bicchiere di rosso in mano. Quanto alla “diversità” di Don Alvaro (il suo sangue mulatto, la sua pelle meticcia), qui diventa quella di un capellone di ottima famiglia ma inevitabilmente eslege: e se l’assenza di Jonas Kaufmann – nella recita di cui si dà conto – ha forse sottratto qualcosa in termini d’icasticità, Zoran Todorovic resta comunque un sostituto ben amalgamato.

 


Foto di Wilfried Hoesl
 

Mancando Kaufmann, trionfatrice della serata è stata Anja Harteros, beniamina del pubblico di Monaco: una Leonora di bellezza diafana e magnetica, con l’intermediazione di un canto concentrato ed espressivo. La limpidezza del registro superiore non può occultare che la scrittura è un po’ troppo bassa per lei (la regione medio-grave denuncia sonorità più fioche e artefatte), ma classe e musicalità sono di prim’ordine, nei ripiegamenti lirici come negli scatti drammatici: anche quando non rispetta fino in fondo le prescrizioni verdiane – elude la messa di voce sul Fa dell’incipit di Pace, pace mio Dio – i risultati restano di grande autorevolezza stilistica.

 

Todorovic – cantante assai più scabro – non è il partner ideale per una simile Leonora, laddove Tézier appartiene a una civiltà canora consonante a quella della Harteros: voce calda e timbrata di baritono lirico, ideale finché il personaggio affetta l’elegante leggerezza di Pereda, ma forse sottodimensionata per il canto cupissimo e martellante che, nel prosieguo dell’opera, caratterizza Carlo di Vargas. Tézier affronta il cimento con signorilità: sfuma meno di quanto ci si potrebbe aspettare da uno strumento soffice come il suo (la consapevolezza di affrontare una scrittura ai limiti delle sue possibilità lo rende un po’ granitico), ma l’accento è misurato, il colore naturalmente scuro senza forzature, l’emissione mai squilibrata, neppure nei passaggi più violenti.

 

A Kowaljow si potrebbe imputare, paradossalmente, di cantare fin troppo bene la piccola parte del marchese di Calatrava, sfigurando un po’, al confronto, quando affronta il più complesso ruolo del Padre Guardiano: comunque un basso di ottima linea, morbido nella fonazione, nobile nel porgere. Gli fa da robusta spalla il Melitone di Renato Girolami, “buffo” senza trucchi e tutto risolto nel canto. Una certa disomogeneità caratterizza semmai la linea vocale di Nadia Krasteva, che plasma con forte presenza scenica la Preziosilla soldatessa hard, emblema delle più oscure pulsioni femminili in tempo di guerra, concepita dalla regia.

 

Asher Fisch governa la narrazione senza indugi cantabili e, anzi, con una robustezza sinfonica congeniale all’orchestra della Bayerische Staatsoper (da fuoriclasse, nel terzo atto, gli interventi del clarinetto solista). Ciò non toglie, però, che i solisti siano ben sostenuti dal podio: anche gli elementi meno precisi musicalmente, come Todorovic e la Krasteva, vengono imbrigliati all’interno di un rigoroso flusso ritmico. Ne scaturisce una Forza del destino compatta più che composita, e di rimarchevole asciuttezza drammatica. Come ai tempi d’oro della Verdi renaissance tedesca.

 

 

La forza del destino



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Foto di Wilfried Hoesl


 
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