Nominalmente «commedia lirica», Arabella trova la propria cifra stilistica e drammaturgica tenendosi a metà del guado tra Il cavaliere della rosa, che la precede dun ventennio, e Capriccio, con cui Strauss chiuderà nove anni dopo la sua parabola operistica. Non più «commedia musicale» come la prima, non ancora «conversazione per musica» come la seconda (rinuncia allampia articolazione strutturale delluna, ma senza approdare alla rarefatta economia di mezzi dellaltra), Arabella è unopera baciata da quella naturalezza che caratterizza il canto del puro soprano lirico, non a caso “taglia” vocale della protagonista: una voce, cioè, senza la forza tagliente del soprano drammatico (dove Strauss, dallElettra alla Donna senzombra, aveva costruito più dun ritratto memorabile) né lappeal virtuosistico del soprano leggero (qui riservato al ruolo-cammeo della Fiakermilli), ma che vive appunto della propria spontaneità canora, nellaccettazione duna medietas che impone solo di cantare senza sforzo, con la fluidità con cui si parla.
È un equilibrio difficile da raggiungere, anche perché, nel teatro musicale, lo stile conversativo rischia di scantonare nella vacuità fonica; mentre sul fronte opposto il pericolo, e con Strauss è facile caderci, è non rinunciare a quei turgori orchestrali post-romantici che, per quanto appaganti, snaturano il carattere – diciamo così – “cameristico-allargato” di Arabella e la calibratura dei suoi profili vocali. Per arrivare alla quadratura del cerchio occorrono un direttore di estrema sensibilità e altissimo dominio tecnico; un cast non solo di ferrati vocalisti, ma di finissimi artisti; e una regia che non cerchi sottotesti ideologici, ma si affidi a quella «profondità in superficie» sempre cara a Hofmannsthal, che con questo libretto raggiunse probabilmente – sebbene in pochi labbiano riconosciuto – il frutto più alto del suo sodalizio con Strauss (oltre che, purtroppo, il proprio estremo testamento artistico). A Salisburgo, dove Arabella ha rappresentato il clou del Festival di Pasqua di questanno, almeno i primi due elementi cerano.
Daniel Behle (Matteo), Thomas Hampson (Mandryka). Foto Forster
Eterno ragazzo ormai cinquantacinquenne, Christian Thielemann è oggi lultimo dei direttori autenticamente romantici. Tuttavia, ama troppo Strauss – in tutti gli aspetti, in ogni sfumatura – per cadere nella trappola del sovradimensionamento fonico di Arabella e della sua riconduzione a un “peso” inappropriato, a unestetica alla Rosenkavalier: anzi, forse, nessun altro direttore ha mai saputo rendere giustizia come lui agli intenti che aveva Strauss per questa partitura, quando ne parlava come di «un nuovo Cavaliere della rosa, ma senza gli errori e le lungaggini». Il dialogo scorre intellegibilissimo sul letto dun fiume sonoro denso, ma mai straripante; ritmica e timbrica hanno un inesausta vis cangiante, fedele specchio dei toni sempre trascoloranti della sceneggiatura hofmannsthaliana; e se i cantanti vengono perfettamente sostenuti nel loro cantar parlando, a cantare senza “se” e senza “ma” è una flessuosissima orchestra. Anche se qui, ovviamente, entra in gioco pure la perfetta sintonia tra il concertatore e la Staatskapelle di Dresda (degli archi dindimenticabile morbidezza), orchestra in residence al Festival di Pasqua da quando Thielemann ne è il direttore artistico.
Tra Renée Fleming e Thomas Hampson esiste unalchimia canora di lunga data, che lattuale – e comunque relativo – appannamento dei mezzi non infirma, anzi rende ancor più fruttuosa nel cercare nuovi accenti e altri colori. Lei è ormai un po troppo matura per il ruolo della protagonista: ma in palcoscenico la sua bellezza radiosa trasfigura i limiti prosaici dellanagrafe, mentre certe sopravvenute disomogeneità (il registro superiore è sempre vivido e limpidissimo, più in basso la voce simpoverisce quanto a corpo e timbratura) appaiono funzionali a descrivere lanima divisa in due di Arabella, il suo transitare dalla spensieratezza delladolescenza alla ponderatezza di una femminilità più consapevole. Hampson, visibilmente indisposto (alla seconda recita raucedini e difficoltà di tenuta erano palesi), ancor più si affida allespressività piuttosto che al puro suono: ne sortisce un ritratto memorabile per gioco scenico e arte del porgere, da gustare di nuovo in una serata di miglior forma. Fermo restando che il suo è un Mandryka alla Fischer-Dieskau, non alla Hotter o alla London: incline, cioè, a glissare sul lato rusticano e naïf del personaggio, per farne una caratterizzazione più sofisticata e “di testa”.
Thomas Hampson (Mandryka), Renée Fleming (Arabella). Foto Forster
Accanto alla coppia di divi, due rivelazioni e due veterani. Hanna-Elisabeth Müller simpone con un canto timbrato e penetrante (natura, ma pure ottima proiezione) e una fisicità perfetta sia quando deve vestire i panni androgini del supposto Zdenko, sia quando si rivela nella sua femminilità di Zdenka. Ricchezza di colori e salda musicalità ne fanno la degna spalla dellArabella della Fleming: non a caso il duetto tra le due sorelle è stato il momento più emozionante, e coronato dal più lungo applauso, della serata. Daniel Behle, a sua volta, può contare su una tenorilità accattivante in termini di squillo, e aggira gli ostacoli dellingrato ruolo di Matteo con una simpatia che fa venir voglia di parteggiare per questo balordo personaggio. E siccome Thielemann ama ricorrere ai fuoriclasse anche per i cammei, nella matura coppia dei coniugi aristocratici e spiantati troviamo Gabriela Beňačková e Albert Dohmen. Lei usa le sue armi sempreverdi di concertista squisita per miniare, con spirito e raffinatezza, il canto di conversazione della Contessa Adelaide; lui, interprete memorabile di Wotan e dellOlandese, potrebbe sembrare una partecipazione lussuosa ma fuori posto, la corda della commedia non essendogli troppo congeniale. Però il suo aplomb ha un curioso umorismo, magari preterintenzionale, e si resta sempre ammirati davanti a un cantante che, dopo una lunga carriera, riesce ancora a dominare le corde del basso e del baritono con uguale compattezza e stabilità di suono.
Detto che Daniela Fally è una Fiakermilli di professionale ancorché non abbagliante virtuosismo, che Jane Henschel (altra cantante adusa, fino a ieri, alle prime parti) è una cartomante sopra le righe, sì, ma solo quanto basta, e che il trio dei pretendenti – Benjamin Bruns, Derek Welton e Steven Humes – dà il suo contributo per insaporire la pietanza, resta da parlare della regia. Quasi a voler sancire lesistenza di un “prima” e un “dopo” Hofmannsthal (che morì senza portare a termine la revisione degli ultimi due atti), Florentine Klepper scinde Arabella in un dittico visivamente ben distinto: di qua il primo atto, di là gli altri due, non a caso eseguiti senza intervallo tra loro. La prima metà ha un taglio quasi cinematografico (il passaggio tra i diversi ambienti dellalbergo viene risolto facendo scorrere il palcoscenico come in un piano-sequenza) e lindubbia parentela tra Arabella e la sophisticated comedy di Lubitsch e Cukor – Il diavolo è femmina, in primo luogo – viene risolta con garbate citazioni, senza dimenticare una strizzata docchio alla commedia cinematografica italiana (Hampson truccato come Luciano Salce).
Sono trovate più o meno carine, che però non approdano a unidea registica “forte”, mentre nella seconda parte si passa dal realismo paracinematografico a una teatralità stilizzatissima. La scena del ballo dei cocchieri è tanto lugubre (mancano le dame, i vetturini danzano meccanicamente tra loro) quanto schematica (ferve la festa, ma in scena appaiono di volta in volta solo i personaggi che dicono le battute); e trasferire lazione dalla Vienna del 1860 prevista dal libretto a quella primonovecentesca – come dire da una città in decadenza, ma in cerca di divertimento, a una capitale dal “nuovo” che avanza – dà alla vicenda un sapore socialpolitico: di qua le donne vittime delle convenzioni familiari come Arabella, di là le donne libere e trasgressive come la Fiakermilli. Un po banale, per una commedia basata sul mascheramento e la metamorfosi della più squisita femminilità.
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