Solitamente circoscritta nella dimensione gentile ma angusta dellidillio, e con una castigatezza strumentale che presenta tutti i trabocchetti della sublime semplicità, La sonnambula è unopera tra le più banalizzate dalla nostra tradizione esecutiva. Assistere a una produzione estranea allambiente operistico italiano, da sempre poco incline a mettere in discussione parametri consolidati (per inveterato conservatorismo, e oggi anche per unaccidiosa tendenza alla globalizzazione), può dunque aprire una finestra nuova in termini stilistici e drammaturgici: è quanto accade allOpera di Košice, seconda città della Slovacchia a pochi chilometri dal confine ungherese, fugacemente al centro dei riflettori internazionali lanno scorso – ma le sue bellezze architettoniche meriterebbero un costante primo piano – quando fu eletta capitale europea della cultura.
Detto che il teatro (un edificio neorinascimentale di fine Ottocento) è tra i più fascinosi di tutta larea mitteleuropea, che il repertorio appare estremamente variegato e offre molti titoli invedibili in Italia, che lorchestra ha unindividualità timbrica precisa abbinando la compattezza alla flessibilità, resta da vedere come “suona” questo Bellini ungaro-slovacco. Il risultato è una Sonnambula semplicissima ma di spessore, nel solco del miglior “teatro povero”, e incline – al contempo – a valorizzare larchitettura orchestrale di questa partitura apparentemente minimalista, evidenziandone certi profili quasi cameristici, dove ogni singolo strumentista sembra avere la presenza di un solista.
Foto di Joseph Marčinský
Consapevole che la Svizzera della Sonnambula, al pari dei paesi baschi dellElisir damore, è un ambientazione di comodo e un luogo della fantasia, il regista Václav Málek sceglie dinnestare la storia su un humus che parli più direttamente agli slovacchi. Tutta la vicenda, dunque, assume luci, colori e costumi – quelli realizzati da Soňa Valentová sono atemporali, ma inequivocabilmente “etnici” – legati al folklore locale: «il mulino, il fonte, il bosco» del libretto di Felice Romani sono lontani (semmai cè qualche parentela con il villaggio boemo raccontato da Smetana nella Sposa venduta), mentre il palcoscenico si popola di giganteschi fantocci carnascialeschi che replicano iconografie della grande tradizione marionettistica slovacca.
Apparentemente ridenti (ma vi figura pure la classica Morte in teschio e scheletro) e chiamati a festeggiare il fidanzamento tra Amina ed Elvino, i pupazzi insufflano in realtà il debito retrogusto inquietante alla vicenda: il versante folklorico della messinscena non scantona mai nelloleografia (certe controscene rusticamente danzanti, semmai, sono utili a ricordarci che alla radice del libretto cè un ballet-pantomime di Scribe), né Málek dimentica quanto di “nero” serpeggi, sottopelle, nella Sonnambula. Anzi, il regista pennella icasticamente la cattiveria pettegola radicata in ogni piccola comunità – le valligiane, nello svergognare la ripudiata Amina, qui cercano di alzarle la sottana per testare il suo stato ginecologico – e, daltro canto, non tralascia piccoli indizi illuminanti su come, nella pur castissima protagonista, la trance sonnambolica rispecchi i rapinosi effetti delleros. Laveva ben mostrato Stefan Zweig nel racconto La donna e il paesaggio, quasi un referto di psicanalisi femminile: ma ci voleva una Sonnambula mitteleuropea perché anche il teatro dopera se ne accorgesse.
Foto di Joseph Marčinský
Peter Valentovič, dal podio, è a sua volta un narratore personale e vigile ai dettagli. Per cogliere la diversa prospettiva tra la sua concertazione e quella di un medio direttore italiano basterebbe sentire come introduce larietta iniziale di Lisa, “seconda donna” e antagonista minore cui la prassi esecutiva non riserva troppe attenzioni: qua percepiamo, invece, un respiro dinsolita ampiezza e una minuziosità nel delineare latmosfera del brano che farebbero credere, se non si conoscesse lopera, di essere sul punto dascoltare la cavatina della protagonista. E anche come “regista vocale” il direttore adotta soluzioni difformi dalla tradizione italiana, eppure fertili di spunti espressivi: è il caso del finale di Ah! Non credea mirarti, normalmente affidato a un etereo pianissimo che fissa la pagina in un perfetto cristallo, qui risolto con un suono rinforzato – salvo poi sfumarlo sullultima battuta – che dà un surplus di palpito drammatico senza nulla togliere alla sublime rarefazione del flusso musicale. Dispiace solo che, in una lettura tanto personale, ci si affidi al déjà vu per laspetto più discutibile: quei tagli istituzionalizzati, ma non per questo meno destrutturati (i colpi di forbice nei “da capo”, la soppressione di un momento nevralgico come il quartetto del secondo atto), che hanno snaturato la fisionomia della Sonnambula, dando un sentore di fragile incompletezza a unopera tanto delicata quanto, in realtà, compattissima.
Il cast è assai amalgamato, come si conviene a un teatro che conta su una compagnia stabile, senza distinzione tra prime parti e comprimari: il soprano Tatiana Palovčiková-Paládiová è circoscritta al ruolo di Lisa, ma il suo cursus honorum è quello di una primadonna a tutti gli effetti; e non stupisce scoprire che il simpaticissimo baritono Marián Lukáč, capace di virare in divertente umanità il personaggino stolido e patetico di Alessio, nella stessa stagione si fa carico del Figaro mozartiano. Per il resto, Bellini e La sonnambula in Slovacchia sono indissolubilmente legati al nome (e al mito) di Edita Gruberova: inevitabile, dunque, che la protagonista Nikola Proksch occhieggi a tale modello, compresi quei manierismi – le riprese di fiato ansimanti, certi sussurri ai limiti della vacuità timbrica – che nelloriginale danno vita a un personalissimo marchio di fabbrica, ma nelle epigone restano semplici vezzi espressivi. Più che sullo spirito di emulazione, conviene porre laccento sui pregi intrinseci di questa giovane cantante: la dizione italiana impeccabile e capace di restituire il testo in tutte le sue sfumature, lemotività trattenuta ma appunto per questo toccante, la fermezza del suono mai però tradotta in algida fissità.
Foto di Joseph Marčinský
Ondrej Šaling rende bene, scenicamente, lElvino impacciato e sognatore disegnato dalla regia, ma appare di varie spanne inferiore alla collega: anche a voler circoscrivere il ruolo nella taglia del tenorino di grazia (e la scrittura vocale imporrebbe ben più di questo), le incertezze nel registro superiore restano un po troppe. Marek Gurbal ha una freschezza insolita per il Conte Rodolfo, che però non si traduce in acerbità: ne sortisce un ritratto canoro morbido e leggero, eppure sempre sonoro e timbrato, atto a delineare più un giovanotto ingrigito da piaceri e disillusioni della vita che un libertino giovanile, ma ormai di mezza età. La Palovčiková-Paládiová, invece, non può più contare su uno strumento troppo fresco, compensando tuttavia la minor duttilità con una notevole autorevolezza vocale, accompagnata da una verve scenica perfetta nel ritrarre una Lisa di piccante e matronale carnalità. E Lenka Čermáková, bella voce di mezzosoprano scuro, assicura la giusta tinta cupa ai concertati: peccato solo che, con il taglio del quartetto, il personaggio di Teresa esca dimidiato.
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