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In trance fra i pupazzi

di Paolo Patrizi
  La sonnanbula
Data di pubblicazione su web 28/03/2014  

 

Solitamente circoscritta nella dimensione gentile ma angusta dell’idillio, e con una castigatezza strumentale che presenta tutti i trabocchetti della sublime semplicità, La sonnambula è un’opera tra le più banalizzate dalla nostra tradizione esecutiva. Assistere a una produzione estranea all’ambiente operistico italiano, da sempre poco incline a mettere in discussione parametri consolidati (per inveterato conservatorismo, e oggi anche per un’accidiosa tendenza alla globalizzazione), può dunque aprire una finestra nuova in termini stilistici e drammaturgici: è quanto accade all’Opera di Košice, seconda città della Slovacchia a pochi chilometri dal confine ungherese, fugacemente al centro dei riflettori internazionali l’anno scorso – ma le sue bellezze architettoniche meriterebbero un costante primo piano – quando fu eletta capitale europea della cultura.

 

Detto che il teatro (un edificio neorinascimentale di fine Ottocento) è tra i più fascinosi di tutta l’area mitteleuropea, che il repertorio appare estremamente variegato e offre molti titoli invedibili in Italia, che l’orchestra ha un’individualità timbrica precisa abbinando la compattezza alla flessibilità, resta da vedere come “suona” questo Bellini ungaro-slovacco. Il risultato è una Sonnambula semplicissima ma di spessore, nel solco del miglior “teatro povero”, e incline – al contempo – a valorizzare l’architettura orchestrale di questa partitura apparentemente minimalista, evidenziandone certi profili quasi cameristici, dove ogni singolo strumentista sembra avere la presenza di un solista.

 

Foto di Joseph Marčinský

 

Consapevole che la Svizzera della Sonnambula, al pari dei paesi baschi dell’Elisir d’amore, è un ambientazione di comodo e un luogo della fantasia, il regista Václav Málek sceglie d’innestare la storia su un humus che parli più direttamente agli slovacchi. Tutta la vicenda, dunque, assume luci, colori e costumi – quelli realizzati da Soňa Valentová sono atemporali, ma inequivocabilmente “etnici” – legati al folklore locale: «il mulino, il fonte, il bosco» del libretto di Felice Romani sono lontani (semmai c’è qualche parentela con il villaggio boemo raccontato da Smetana nella Sposa venduta), mentre il palcoscenico si popola di giganteschi fantocci carnascialeschi che replicano iconografie della grande tradizione marionettistica slovacca.

 

Apparentemente ridenti (ma vi figura pure la classica Morte in teschio e scheletro) e chiamati a festeggiare il fidanzamento tra Amina ed Elvino, i pupazzi insufflano in realtà il debito retrogusto inquietante alla vicenda: il versante folklorico della messinscena non scantona mai nell’oleografia (certe controscene rusticamente danzanti, semmai, sono utili a ricordarci che alla radice del libretto c’è un ballet-pantomime di Scribe), né Málek dimentica quanto di “nero” serpeggi, sottopelle, nella Sonnambula. Anzi, il regista pennella icasticamente la cattiveria pettegola radicata in ogni piccola comunità – le valligiane, nello svergognare la ripudiata Amina, qui cercano di alzarle la sottana per testare il suo stato ginecologico – e, d’altro canto, non tralascia piccoli indizi illuminanti su come, nella pur castissima protagonista, la trance sonnambolica rispecchi i rapinosi effetti dell’eros. L’aveva ben mostrato Stefan Zweig nel racconto La donna e il paesaggio, quasi un referto di psicanalisi femminile: ma ci voleva una Sonnambula mitteleuropea perché anche il teatro d’opera se ne accorgesse.

 

Foto di Joseph Marčinský

 

Peter Valentovič, dal podio, è a sua volta un narratore personale e vigile ai dettagli. Per cogliere la diversa prospettiva tra la sua concertazione e quella di un medio direttore italiano basterebbe sentire come introduce l’arietta iniziale di Lisa, “seconda donna” e antagonista minore cui la prassi esecutiva non riserva troppe attenzioni: qua percepiamo, invece, un respiro d’insolita ampiezza e una minuziosità nel delineare l’atmosfera del brano che farebbero credere, se non si conoscesse l’opera, di essere sul punto d’ascoltare la cavatina della protagonista. E anche come “regista vocale” il direttore adotta soluzioni difformi dalla tradizione italiana, eppure fertili di spunti espressivi: è il caso del finale di Ah! Non credea mirarti, normalmente affidato a un etereo pianissimo che fissa la pagina in un perfetto cristallo, qui risolto con un suono rinforzato – salvo poi sfumarlo sull’ultima battuta – che dà un surplus di palpito drammatico senza nulla togliere alla sublime rarefazione del flusso musicale. Dispiace solo che, in una lettura tanto personale, ci si affidi al déjà vu per l’aspetto più discutibile: quei tagli istituzionalizzati, ma non per questo meno destrutturati (i colpi di forbice nei “da capo”, la soppressione di un momento nevralgico come il quartetto del secondo atto), che hanno snaturato la fisionomia della Sonnambula, dando un sentore di fragile incompletezza a un’opera tanto delicata quanto, in realtà, compattissima.

 

Il cast è assai amalgamato, come si conviene a un teatro che conta su una compagnia stabile, senza distinzione tra prime parti e comprimari: il soprano Tatiana Pal’ovčiková-Paládiová è circoscritta al ruolo di Lisa, ma il suo cursus honorum è quello di una primadonna a tutti gli effetti; e non stupisce scoprire che il simpaticissimo baritono Marián Lukáč, capace di virare in divertente umanità il personaggino stolido e patetico di Alessio, nella stessa stagione si fa carico del Figaro mozartiano. Per il resto, Bellini e La sonnambula in Slovacchia sono indissolubilmente legati al nome (e al mito) di Edita Gruberova: inevitabile, dunque, che la protagonista Nikola Proksch occhieggi a tale modello, compresi quei manierismi – le riprese di fiato ansimanti, certi sussurri ai limiti della vacuità timbrica – che nell’originale danno vita a un personalissimo marchio di fabbrica, ma nelle epigone restano semplici vezzi espressivi. Più che sullo spirito di emulazione, conviene porre l’accento sui pregi intrinseci di questa giovane cantante: la dizione italiana impeccabile e capace di restituire il testo in tutte le sue sfumature, l’emotività trattenuta ma appunto per questo toccante, la fermezza del suono mai però tradotta in algida fissità.

 

Foto di Joseph Marčinský


Ondrej Šaling rende bene, scenicamente, l’Elvino impacciato e sognatore disegnato dalla regia, ma appare di varie spanne inferiore alla collega: anche a voler circoscrivere il ruolo nella taglia del tenorino di grazia (e la scrittura vocale imporrebbe ben più di questo), le incertezze nel registro superiore restano un po’ troppe. Marek Gurbal’ ha una freschezza insolita per il Conte Rodolfo, che però non si traduce in acerbità: ne sortisce un ritratto canoro morbido e leggero, eppure sempre sonoro e timbrato, atto a delineare più un giovanotto ingrigito da piaceri e disillusioni della vita che un libertino giovanile, ma ormai di mezza età. La Pal’ovčiková-Paládiová, invece, non può più contare su uno strumento troppo fresco, compensando tuttavia la minor duttilità con una notevole autorevolezza vocale, accompagnata da una verve scenica perfetta nel ritrarre una Lisa di piccante e matronale carnalità. E Lenka Čermáková, bella voce di mezzosoprano scuro, assicura la giusta tinta cupa ai concertati: peccato solo che, con il taglio del quartetto, il personaggio di Teresa esca dimidiato.

 

 

La sonnanbula
melodramma in due atti


cast cast & credits



 
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