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Storia di Solomon Northup, un americano.

di Diego Battistini
  12 anni schiavo
Data di pubblicazione su web 14/03/2014  

 

Nel 1841 Solom Northup (Chiwetel Ejiofor), cittadino afroamericano nato libero e residente con la sua famiglia a Saratoga, viene imprigionato con l’inganno e venduto come schiavo. Privato del suo nome e della sua storia sarà ceduto da un trafficante di schiavi senza scrupoli (Paul Giamatti), finendo dapprima al servizio del proprietario terriero Tom Ford (Benedict Cumberbatch) e in seguito presso la residenza del perfido Edwin Epps (Micheal Fassbender). Passeranno dodici anni prima che Solomon riesca a riconquistare la libertà, grazie all’intervento dell’attivista canadese Saul Bass (Brad Pitt).

 

Al suo primo film propriamente hollywoodiano, Steve McQueen non rinnega la sua anima autoriale e la sua poetica, dirigendo un film che rispecchia pienamente la sua personalità artistica. Basato sul libro di memorie che il vero Solomon scrisse nel 1853, pubblicato in occasione dell’uscita del film da Newton&Compton, 12 anni schiavo è un film contraddistinto da un doppio movimento: uno centrifugo che lega indissolubilmente la storia di Solomon alla storia della schiavitù, l’altro centripeto che scava più nel profondo, allargando il concetto di schiavitù e mostrando quanto il film di McQueen si manifesti come una nuova tappa nel coerente percorso cinematografico del regista.


 


 

 

L’incredibile storia di Solomon, il suo viaggio dalla libertà alla schiavitù, permette a McQueen di filmare una discesa nel cuore di tenebra di un’America che coltiva l’orrore a poca distanza dalla (presunta) civiltà. Con uno stile secco, quasi brutale per la forza con cui colpisce lo spettatore, costringendolo a confrontarsi con immagini ai limiti dell’insostenibile (i trenta secondi in cui Solomon viene mostrato appeso per la gola a un albero, con le sole punte dei piedi a toccare terra non possono essere dimenticati), 12 anni schiavo è caratterizzato da un ampio uso di inquadrature monopuntuali che, da un lato, invitano lo spettatore a esplorarle come fossero un quadro, ma dall’altro aprono brecce temporali che dilatano la percezione del tempo e degli eventi, aumentando anche il disagio di chi si trova ad osservarle. Da questo punto di vista risultano infondate le accuse rivolte al regista: manierismo, ricerca della “bella forma” nel racconto di eventi tragici. In realtà non vi è nulla di gratuito nella messa in scena di McQueen, ogni inquadratura risulta essere funzionale nel descrivere un dramma che il regista affronta e mostra con profonda indignazione, e al quale contrappone per contrasto le poetiche sequenze notturne che hanno come oggetto privilegiato il fiume e la vegetazione che circonda Solomon e gli altri schiavi, sottolineando così l’indifferenza della natura nei confronti delle vicende umane.


 

 


Oltre però all’inevitabile confronto con la Storia, il film di McQueen tocca più in generale il tema della schiavitù in quanto condizione umana, riflettendo in modo particolare su un tema a lui caro: il corpo descritto come una prigione. In Hunger, il membro dell’IRA Bobby Sands intraprende uno sciopero della fame per rivendicare il suo status di prigioniero politico. Il gesto di Sands palesa, tanto ai suoi aguzzini quanto a noi spettatori, che l’unica prigione che può negare la sua libertà è il suo stesso corpo. Una volta abbandonato, quest’ultimo rimarrà solo un’involucro vuoto. Allo stesso modo il protagonista di Shame, Brandon - spesso ripreso dietro una finestra a vetri, o con il collo avvolto da una sciarpa che molto somiglia a un cappio per l’impiccagione -, è prigioniero di un corpo le cui pulsioni (sessuali) risultano essere mortifere. In 12 anni schiavo viene ad aggiungersi evidentemente un altro elemento: il colore della pelle. La schiava Patsey (Lupita Nyong’o) chiede a Solomon di ucciderla, conscia che l’abbandono di quel corpo “diverso”, percosso con violenza dal proprio padrone, è l’unico modo per raggiungere la libertà.


 


 

Ma l’atteggiamento di McQueen a questo secondo livello tende a fare della schiavitù non solo il dramma di una specifica comunità, bensì un dramma del singolo in quanto uomo, indipendentemente se si tratti di uno schiavo o di un uomo libero. Solomon è uno schiavo tanto quanto lo è il suo secondo padrone, Micheal Epps. Attratto dalla schiava Patsey, Epps, come il Brandon di Shame, è schiavo di pulsioni verso le quali prova repulsione perché minano dall’interno un ordine costituito che egli crede fondato su un diritto divino. Ma oltre Epps, anche altri personaggi secondari risultano essere schiavi di qualcosa: della propria ignoranza, della propria debolezza, di un dolore incancellabile, come la schiava a cui portano via i figli, liquidata dalla padrona di turno con parole sprezzanti che fanno scaturire quell’indignazione di cui si parlava in precedenza : ĞDopo che avrai mangiato ti sarai già dimenticata dei tuoi figliğ.

 

Questa seconda dimensione evidenzia quanto l’opera di McQueen non si esaurisca nei singoli film  ma manifesti un respiro più ampio, definendo un percorso autoriale coerente. Il suo cinema, contraddistinto da scelte formali coraggiose è la quintessenza della modernità cinematografica. Il suo stile, già definito in Hunger, trova in 12 anni schiavo una definitiva cristallizzazione, raggiungendo un’asciuttezza e un’immediatezza proprie solo dei grandi maestri.



12 anni schiavo
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