drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Puccini, Wagner e il deserto

di Paolo Patrizi
  Manon Lescaut
Data di pubblicazione su web 10/03/2014  

 

«Io la sentirò all’italiana, con passione disperata», scriveva Puccini quando, accingendosi a musicare Manon Lescaut, gli facevano notare che Massenet stava lavorando al medesimo soggetto: nella convinzione che quest’ultimo l’eroina di Prévost «la sentirà alla francese, con la cipria e i minuetti», e dunque tra la propria opera e quella del collega d’oltralpe non ci sarebbero stati accavallamenti. È una di quelle frasi-slogan su cui la storiografia musicale ha insistito fin troppo, al pari di tante boutade d’occasione pronunciate da Rossini o Verdi e poi assurte a verità sapienziale: ma certo era difficile aspettarsi una Manon così poco latina e priva di pigli mediterranei da Riccardo Muti, che sia come musicista (il non molto Puccini da lui diretto finora sembrava ben ancorato al nostro tardo-romanticismo) sia come comunicatore mediatico ama sventolare la bandiera di una certa orgogliosa italianità. In queste recite romane Muti approda, piuttosto, a una Manon wagnerista, quasi tristaniana nel cromatismo inteso come ansia centrifuga e nell’evidenziazione implacabile (ma con una naturalezza – verrebbe da dire una necessità – assoluta) di ogni Leitmotiv nascosto e inopinatamente riaffiorante; e restituisce il diciottesimo secolo dell’ambientazione non come couleur locale, ma quale preciso ingrediente della drammaturgia musicale. Forse nessuna Manon Lescaut aveva così ben esemplificato il titolo scelto da Michele Girardi, nel suo fortunato volume su Puccini, per il capitolo su quest’opera: Wagner e il Settecento.

 

Tutto questo, naturalmente, significa anche glissare su alcuni aspetti della partitura: la spensieratezza goliardica dell’avvio del primo atto viene meno, l’energia inesausta che accompagna amore, fughe e ritorni dei due protagonisti – che, non dimentichiamolo, sono due adolescenti – appare ridimensionata. Ma ciò è la naturale conseguenza di una lettura musicale come narrata in terza persona, da un occhio esterno: e, d’altronde, in Puccini come in Verdi, Muti ha sempre posto al centro la vicenda (l’orchestra) più che i personaggi (i cantanti). Per il resto, al pari delle recite scaligere di una quindicina d’anni fa, permane quel fraseggio chiarissimo e cantabile che è la cifra distintiva di Muti. Pulsa un po’ meno vitalità, ma proprio per questo appare oggi difficile muovere al direttore l’unico rimprovero che, allora, gli fu rivolto: un Intermezzo fin troppo severo e latitante nella sua dimensione sensuale. Laddove, nell’odierna lettura di Muti, quello stesso Intermezzo così cupo, meditato e asciugato di carnalità appare ineccepibile.


 


Scena d'insieme. Foto di Silvia Lelli


 

Dopo tanti titoli verdiani magistralmente reintegrati nell’ottica della grande musica, anziché del mero grande teatro, per Muti sembra giunto il momento di dire la sua in modo risolutivo pure su Puccini: restituendo una diversa percezione d’un compositore che la cattiva tradizione ha alterato in modo diverso da Verdi, ma in maniera altrettanto grave. Tuttavia, nonostante in Puccini l’orchestra ricopra una funzione ancor più demiurgica, la tattica pressoché infallibilmente applicata da Muti nelle interpretazioni verdiane – cantanti come meri tasselli di un mosaico ricondotto a unità dal direttore – qui ha lasciato intravedere qualche crepa: minore lungimiranza nell’approntare un cast pucciniano? Minore idiomaticità di Muti, al di là degli esiti musicali comunque altissimi, nel fronteggiare Puccini e, dunque, meno scioltezza nel dialogare con il palcoscenico?

 

Questa recensione dà conto d’una replica del secondo cast (d’altronde in gran parte uguale al primo), ma sarebbe ingiusto attribuire una certa delusione al passaggio dalla star Anna Netrebko a una seria professionista poco glamorous come Serena Farnocchia: tra una diva che rappresenta uno dei prodotti più eloquenti – nel bene e nel male – dello star system e una disciplinata artigiana del canto, non è poi così automatico dover preferire la prima. Il problema, piuttosto, è che (forse per aver provato meno della collega) la Farnocchia è una Manon Lescaut di scarso dialogo con la Manon evocata dall’orchestra di Muti: una protagonista piuttosto matronale e portata – da un lato in virtù di un “vibrato” d’antica scuola, non invasivo ma ben percepibile, dall’altro di un temperamento di conio tradizionale, ancorché non troppo acceso – a ricondurre il personaggio nell’alveo di un Puccini paraverista, che con un’altra concertazione avrebbe potuto farsi valere e qui, invece, si raggruma nel rigido tentativo di adeguarsi agli input del direttore.


 


Serena Farnocchia (Manon) e, dietro al centro, Carlo Lepore (Geronte).
Foto di Silvia Lelli

 

Se per il soprano si può discutere in termini di sintonia, restando però indubbia la professionalità della linea canora, il discorso per il tenore si fa più imbarazzante. L’acerbità può pure essere una spiegazione a certi deficit vocali di Yusif Eyvazov, ma spiegare è un conto e giustificare un altro: quando l’emissione lascia la voce perennemente imbottigliata e “indietro”, quando mancano squillo ed espansione, quando l’ansia di raggiungere la nota inibisce ogni tentativo di fraseggio il ruolo di Des Grieux, semplicemente, viene meno. E altrettante perplessità – al di là del minore impegno richiesto – provengono dall’esibizione di Francesco Landolfi, che vanifica tutta la sapidità di Lescaut: baritono “di mezzo carattere”, ma non a caso caro a molti grandi interpreti. Se la proiezione del suono non consente alla voce di galleggiare sul coro (rendendo inudibile nel finale primo il suo sproloquio con Geronte), e se per tradurre la cialtroneria del personaggio ci si adagia su una declamazione secca e angolosa (anziché lavorare sui colori), anche qui la falla è esiziale.

 

Pure i ruoli di fianco – nella Manon tutt’altro che marginali – convincono solo in parte: escono a testa alta Carlo Lepore (un Geronte sonoro, timbrato, senza tentazioni caricaturali) e Roxana Constantinescu (che nel madrigale mostra una musicalità saldissima accompagnata da una voce molto interessante di Falcon lirico), ma su altri ci sarebbe da discutere. E la messinscena non riesce a dissipare certe perplessità: Chiara Muti sceglie di cimentarsi in un’opera registicamente tra le più complesse di tutto il grande repertorio, e dovrebbe sapere che quando si è figli d’arte essere nell’occhio del ciclone rientra nelle regole del gioco. Forse in un contesto meno prestigioso ma più tranquillo, a fianco d’un direttore di altro cognome, critica e pubblico avrebbero evidenziato meno certe ingenuità dell’allestimento (la goffaggine scenica del coro, l’idea piuttosto velleitaria – in quanto non adeguatamente sviluppata – di rendere visibile dall’inizio il deserto dell’ultimo atto, facendone una sorta di luogo mentale e “deserto dell’anima”…) e avrebbero lodato di più talune eleganze visive. Che comunque, in sostanza, si limitano al lavoro gradevolmente decorativo dello scenografo Carlo Centolavigna, e all’abilità con cui è riuscito a far convivere quel deserto onnipresente con gli elementi scenici chiamati a connotare, di volta in volta, le ambientazione dei tre atti precedenti.

 

 

Manon Lescaut



cast cast & credits

Serena Farnocchia (Manon)

Foto di Silvia Lelli


 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013