«Io la sentirò allitaliana, con passione disperata», scriveva Puccini quando, accingendosi a musicare Manon Lescaut, gli facevano notare che Massenet stava lavorando al medesimo soggetto: nella convinzione che questultimo leroina di Prévost «la sentirà alla francese, con la cipria e i minuetti», e dunque tra la propria opera e quella del collega doltralpe non ci sarebbero stati accavallamenti. È una di quelle frasi-slogan su cui la storiografia musicale ha insistito fin troppo, al pari di tante boutade doccasione pronunciate da Rossini o Verdi e poi assurte a verità sapienziale: ma certo era difficile aspettarsi una Manon così poco latina e priva di pigli mediterranei da Riccardo Muti, che sia come musicista (il non molto Puccini da lui diretto finora sembrava ben ancorato al nostro tardo-romanticismo) sia come comunicatore mediatico ama sventolare la bandiera di una certa orgogliosa italianità. In queste recite romane Muti approda, piuttosto, a una Manon wagnerista, quasi tristaniana nel cromatismo inteso come ansia centrifuga e nellevidenziazione implacabile (ma con una naturalezza – verrebbe da dire una necessità – assoluta) di ogni Leitmotiv nascosto e inopinatamente riaffiorante; e restituisce il diciottesimo secolo dellambientazione non come couleur locale, ma quale preciso ingrediente della drammaturgia musicale. Forse nessuna Manon Lescaut aveva così ben esemplificato il titolo scelto da Michele Girardi, nel suo fortunato volume su Puccini, per il capitolo su questopera: Wagner e il Settecento.
Tutto questo, naturalmente, significa anche glissare su alcuni aspetti della partitura: la spensieratezza goliardica dellavvio del primo atto viene meno, lenergia inesausta che accompagna amore, fughe e ritorni dei due protagonisti – che, non dimentichiamolo, sono due adolescenti – appare ridimensionata. Ma ciò è la naturale conseguenza di una lettura musicale come narrata in terza persona, da un occhio esterno: e, daltronde, in Puccini come in Verdi, Muti ha sempre posto al centro la vicenda (lorchestra) più che i personaggi (i cantanti). Per il resto, al pari delle recite scaligere di una quindicina danni fa, permane quel fraseggio chiarissimo e cantabile che è la cifra distintiva di Muti. Pulsa un po meno vitalità, ma proprio per questo appare oggi difficile muovere al direttore lunico rimprovero che, allora, gli fu rivolto: un Intermezzo fin troppo severo e latitante nella sua dimensione sensuale. Laddove, nellodierna lettura di Muti, quello stesso Intermezzo così cupo, meditato e asciugato di carnalità appare ineccepibile.
Scena d'insieme. Foto di Silvia Lelli
Dopo tanti titoli verdiani magistralmente reintegrati nellottica della grande musica, anziché del mero grande teatro, per Muti sembra giunto il momento di dire la sua in modo risolutivo pure su Puccini: restituendo una diversa percezione dun compositore che la cattiva tradizione ha alterato in modo diverso da Verdi, ma in maniera altrettanto grave. Tuttavia, nonostante in Puccini lorchestra ricopra una funzione ancor più demiurgica, la tattica pressoché infallibilmente applicata da Muti nelle interpretazioni verdiane – cantanti come meri tasselli di un mosaico ricondotto a unità dal direttore – qui ha lasciato intravedere qualche crepa: minore lungimiranza nellapprontare un cast pucciniano? Minore idiomaticità di Muti, al di là degli esiti musicali comunque altissimi, nel fronteggiare Puccini e, dunque, meno scioltezza nel dialogare con il palcoscenico?
Questa recensione dà conto duna replica del secondo cast (daltronde in gran parte uguale al primo), ma sarebbe ingiusto attribuire una certa delusione al passaggio dalla star Anna Netrebko a una seria professionista poco glamorous come Serena Farnocchia: tra una diva che rappresenta uno dei prodotti più eloquenti – nel bene e nel male – dello star system e una disciplinata artigiana del canto, non è poi così automatico dover preferire la prima. Il problema, piuttosto, è che (forse per aver provato meno della collega) la Farnocchia è una Manon Lescaut di scarso dialogo con la Manon evocata dallorchestra di Muti: una protagonista piuttosto matronale e portata – da un lato in virtù di un “vibrato” dantica scuola, non invasivo ma ben percepibile, dallaltro di un temperamento di conio tradizionale, ancorché non troppo acceso – a ricondurre il personaggio nellalveo di un Puccini paraverista, che con unaltra concertazione avrebbe potuto farsi valere e qui, invece, si raggruma nel rigido tentativo di adeguarsi agli input del direttore.
Serena Farnocchia (Manon) e, dietro al centro, Carlo Lepore (Geronte).
Foto di Silvia Lelli
Se per il soprano si può discutere in termini di sintonia, restando però indubbia la professionalità della linea canora, il discorso per il tenore si fa più imbarazzante. Lacerbità può pure essere una spiegazione a certi deficit vocali di Yusif Eyvazov, ma spiegare è un conto e giustificare un altro: quando lemissione lascia la voce perennemente imbottigliata e “indietro”, quando mancano squillo ed espansione, quando lansia di raggiungere la nota inibisce ogni tentativo di fraseggio il ruolo di Des Grieux, semplicemente, viene meno. E altrettante perplessità – al di là del minore impegno richiesto – provengono dallesibizione di Francesco Landolfi, che vanifica tutta la sapidità di Lescaut: baritono “di mezzo carattere”, ma non a caso caro a molti grandi interpreti. Se la proiezione del suono non consente alla voce di galleggiare sul coro (rendendo inudibile nel finale primo il suo sproloquio con Geronte), e se per tradurre la cialtroneria del personaggio ci si adagia su una declamazione secca e angolosa (anziché lavorare sui colori), anche qui la falla è esiziale.
Pure i ruoli di fianco – nella Manon tuttaltro che marginali – convincono solo in parte: escono a testa alta Carlo Lepore (un Geronte sonoro, timbrato, senza tentazioni caricaturali) e Roxana Constantinescu (che nel madrigale mostra una musicalità saldissima accompagnata da una voce molto interessante di Falcon lirico), ma su altri ci sarebbe da discutere. E la messinscena non riesce a dissipare certe perplessità: Chiara Muti sceglie di cimentarsi in unopera registicamente tra le più complesse di tutto il grande repertorio, e dovrebbe sapere che quando si è figli darte essere nellocchio del ciclone rientra nelle regole del gioco. Forse in un contesto meno prestigioso ma più tranquillo, a fianco dun direttore di altro cognome, critica e pubblico avrebbero evidenziato meno certe ingenuità dellallestimento (la goffaggine scenica del coro, lidea piuttosto velleitaria – in quanto non adeguatamente sviluppata – di rendere visibile dallinizio il deserto dellultimo atto, facendone una sorta di luogo mentale e “deserto dellanima”…) e avrebbero lodato di più talune eleganze visive. Che comunque, in sostanza, si limitano al lavoro gradevolmente decorativo dello scenografo Carlo Centolavigna, e allabilità con cui è riuscito a far convivere quel deserto onnipresente con gli elementi scenici chiamati a connotare, di volta in volta, le ambientazione dei tre atti precedenti.
|
|