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Io nel pensier mi fingo

di Caterina Nencetti
  Operette morali
Data di pubblicazione su web 27/02/2014  

 

Chissà che nell’almanacco di quest’anno non ci fosse già stato scritto tutto! E noi, passeggeri un po’ spilorci, abbiamo perso l’occasione per ben spendere quei trenta soldi. Avremmo infatti saputo cosa aspettarci: la messa in scena di tutto quel che non nacque teatro e che, eccezionalmente, avrebbe dovuto diventarlo. Le dichiarazioni sulla rappresentabilità che è propria di alcune opere non teatrali, come a dire che in fondo non sono stati necessari grandi sforzi di adattamento drammatico e drammaturgico, giustificano la scelta, altrimenti bollabile come “sfortunata”, di un determinato testo e giocano d’anticipo sulle critiche di inadeguatezza dello stesso per una resa performativa. Lo spettatore dovrebbe convincersi che la natura stessa dell’opera prevede la sua presenza e seguirne diligentemente il decorso. Risultato: ad ogni minuto che passa, anche le menti più pazienti, quelle più avvezze alla comprensione (o ancor più, alla tolleranza) covano il dubbio che sarebbe stato meglio rileggersi quelle Operette morali a casa, sul divano, tanto dovevano essere lì, da qualche parte, su di uno scaffale della libreria, magari sepolte dai tempi della scuola.

 


Iaia Forte (Dialogo della Moda e della Morte). Foto di Simona Cagnasso.

 

La mente vaga perché di fronte ad un allestimento che niente aggiunge e niente toglie (forse) alla forza della filosofia leopardiana, non può far altro. Diremo, se mai ce ne fosse bisogno, che gli attori si confermano nella loro valentia di “periti” del mestiere, anche se non comprendiamo il sopravvivere della marcata cadenza napoletana di alcuni di essi. Aggiungeremo che il quadro su Federico Ruysch (Totò Onnis) e le sue mummie ci scuote dal torpore e ci cala per un po’ in un’atmosfera “altra”. Riuscito.

 


Totò Onnis e Giovanni Ludeno (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere). Foto di Simona Cagnasso.

 

In questo modo, riaggiustando una citazione del secolo scorso, concluderemo che sì, si può non nascere teatro e diventarlo, ma l’operazione, una volta ammessa, ha il suo fattore di rischio. Non basta una rima per fare poesia. Non la forma del “dialogo” per unire palco, attori e quant’altro dando vita alla messa in scena. La macchina arriva a destinazione singhiozzando perché non ha abbastanza olio e quest’olio non è altro che l’immaginazione. È un’immaginazione: la mia, la vostra, quella del regista. È la spinta che decidiamo di dare al testo, la sua messa a repentaglio attraverso la perfomance altrimenti, è doveroso chiederselo, a che serve tutto questo? Credetemi, se lo sarebbe chiesto anche Leopardi.


 

Operette morali
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