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Matrimonio con foto di gruppo

di Paolo Patrizi
  Lucia di Lammermoor
Data di pubblicazione su web 26/02/2014  

 

Lucia di Lammermoor è un’opera maschilista. Alla protagonista viene sottratta autonomia decisionale, e non c’è scelta da lei compiuta che non sia frutto di un’imposizione altrui: il fratello la raggira e minaccia; il padre spirituale, con una bella predica, le ingiunge obbedienza all’insegna del più farisaico Deus vult; e perfino l’amatissimo Edgardo forza le decisioni di Lucia, con l’irruenza della passione. La stessa scelta donizettiana di sottrarre alla scena di pazzia della protagonista il canonico statuto di Gran Finale, collocandola al penultimo quadro per lasciare a Edgardo l’onore dell’epilogo, stempera – in qualche modo – la portata tragica del soprano, in favore di una drammaturgia più “tenoricentrica”. E pure la storia dell’interpretazione ha ribadito questa prospettiva maschilista, sdoganando le Lucie affidate a soprani leggeri: chiare nel timbro, flebili nell’accento, più bamboleggianti che angelicate, virtuosisticamente ferrate ma poco eloquenti in termini di fraseggio. Un dolce usignolo meccanico, insomma: che imprimendo un retrogusto infantile al personaggio ne sancisce l’immaturità e, dunque, rende meno ingiustificabili le angherie dei suoi oppressori.

 

In tale prospettiva, appare impeccabile la scelta di Mary Zimmerman – uno spettacolo proveniente dal Metropolitan, già documentato in dvd – di postdatare l’opera dalla Scozia degli Orange e degli Stuart all’Ottocento vittoriano, momento storico di massima sopraffazione della figura femminile (e di negazione delle sue pulsioni). La “tinta” scozzese dell’opera, con le sue voci della brughiera, resta comunque ben presente attraverso la raffigurazione d’una natura selvaggia – di grande eleganza pittorica le scene realizzate da Daniel Ostling – in sé niente affatto matrigna, ma irrimediabilmente ostile alla falsità di quel consorzio umano al centro della vicenda, mentre lo spostamento d’epoca è congruo anche in rapporto al versante da ghost story: un aspetto che per il libretto di Cammarano era soprattutto colore locale, ma per la musica di Donizetti si traduce in una dialettica tra cupezza senza scampo e lirismo lancinante che è la cifra più profonda della Lucia.

 


Edgardo (Vittorio Grigolo), Enrico (Massimo Cavalletti), Lucia (Albina Shagimuratova). Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano.

 

Memore forse dei fantasmi vittoriani materializzati nelle pagine di Edith Wharton, in cui è proprio il realismo narrativo ad accentuare l’aspetto soprannaturale, la regista americana firma una messinscena dove l’estrema minuzia naturalistica veicola la componente onirica, anziché infirmarla: la tangibilità di queste presenze extraterrene – lo spettro della donna nella fontana, evocato dalla protagonista durante Regnava nel silenzio, qui appare in palcoscenico – portano lo spettatore a fare proprio il punto di vista di Lucia, anziché circoscrivere la pagina alle prime avvisaglie allucinatorie d’una psiche già compromessa. E pure Edgardo, in questo spettacolo, dialogherà con le ombre (quella di Lucia medesima, in cinerea sembianza) prima dell’olocausto finale: i fantasmi, insomma, non hanno più bisogno di terrorizzare i vivi perché diventano i vivi stessi, come insegna George Eliot in quel romanzo gotico sui generis che è Il velo dissolto.

 

Chissà che non sia proprio un indiretto omaggio al Lifted Veil della Eliot il modo con cui la regista impagina la scena della pazzia: a passo catatonico, dall’alto di una passerella, Lucia lascia cadere al suolo il suo velo da sposa insanguinato che plana come farfalla ferita, metafora di una deflorazione non consumata ma surrogata dall’omicidio. È un momento di gran teatro trasognato e devastante; anche se, forse, la capacità della Zimmerman di costruire le immagini attraverso il dettato musicale trova la massima espressione in quel “momento sospeso” che è il sestetto, qui trasformato in foto-ricordo del matrimonio: il fotografo che sul pizzicato introduttivo allestisce il treppiedi, poi tutti in posa, le posture continuamente aggiustate mentre la musica scorre implacabile, il coro che – nell’attimo in cui si unisce ai solisti – si alza per farsi inquadrare a sua volta. Infine, terminata l’ascesa di tenore e baritono che in tutta rapidità chiude la pagina, il fatidico lampo di magnesio: lo stupore è finito, l’azione ricomincia.

 

Pur con qualche necessario accomodamento nel passaggio da New York a Milano, lo spettacolo resta dunque non solo uno dei rari casi di grande regia donizettiana oggi, ma una messinscena tra le più belle e intelligenti proposte negli ultimi tempi alla Scala. E tuttavia resta l’impressione che la Lucia – come tutto Donizetti – sia un titolo su cui i vertici scaligeri non vogliano puntare più di tanto, a giudicare dalla sostanziale modestia della locandina schierata. Pier Giorgio Morandi è responsabile di un’esecuzione musicale piuttosto disorganica: recupera le scene che la vecchia tradizione espungeva in toto (la prima aria del basso, il duetto tra tenore e baritono), ma non rinuncia ai classici tagli all’interno dei singoli brani (dunque tanto più destrutturanti); avalla le puntature care all’antica prassi esecutiva, comprese le più muscolari; stacca tempi non sempre comprensibili nel loro andamento a fisarmonica, alternando diluiti “rallentando” a subitanee accelerazioni. Latitano l’aspetto contemplativo e le atmosfere rarefatte, ma quando si tenta la via di un accompagnamento più meditato e dilatato – come nell’aria del basso prima ricordata – l’incedere orchestrale si fa quasi pachidermico.

 


Un momento dello spettacolo. Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano

 

Albina Shagimuratova è una protagonista rispettabile per l’intensa compenetrazione con le indicazioni registiche, l’ottima pronuncia italiana e dei mezzi vocali in sé non memorabili, ma interessanti per come accoppia un’organizzazione canora da tradizionale soprano leggero a un gusto (e un’emissione) d’impronta tardoromantico-verista. Vittorio Grigolo è a sua volta un Edgardo senza pregiudizi stilistici, più naturalista che romantico, come d’altronde lo vuole la regia e così come prima di lui lo sono stati – con esiti, beninteso, assai più alti – Caruso, Di Stefano, Pavarotti, Carreras. Se il fervore rinvia a questi modelli, un certo sottodimensionamento vocale rispetto ai desiderata del ruolo (la mezzavoce è ai confini del “sotto voce”, il finale viene abbassato) potrebbe invece far pensare all’Edgardo di Schipa, ma in una versione ovviamente assai meno cesellata. Né, d’altronde, i vari aggiustamenti – in termini di legato, fiati, tonalità – con cui Grigolo semplifica la scrittura valgono a renderlo più sciolto ed espressivo sul piano del fraseggio.

 

Ancor più opaca la prova di Sergey Artamonov – un basso troppo poco timbrato per rendere giustizia all’altisonante dialettica chiesastica di Raimondo Bidebent – e sbrigativamente virulento, talvolta anche a scapito dell’intonazione, Massimo Cavalletti: mentre Enrico Ashton è, sì, baritono vilain, ma con una sua alterigia aristocratica. Alle prese con ruoli più defilati, Juan Francisco Gatell e Barbara Di Castri non possono pareggiare il conto: ma è assai apprezzabile la musicalità serena e signorile con cui il primo affronta l’aria dello sposino, né passa inosservato lo spessore che la seconda riesce a conferire ad Alisa, facendone tutt’altro che una “spalla” della protagonista nel primo atto e una bella statuina nel sestetto.


Lucia di Lammermoor
Dramma tragico in tre atti


cast cast & credits




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Lucia (Albina Shagimuratova). Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano.

 
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