Lucia di Lammermoor è unopera maschilista. Alla protagonista viene sottratta autonomia decisionale, e non cè scelta da lei compiuta che non sia frutto di unimposizione altrui: il fratello la raggira e minaccia; il padre spirituale, con una bella predica, le ingiunge obbedienza allinsegna del più farisaico Deus vult; e perfino lamatissimo Edgardo forza le decisioni di Lucia, con lirruenza della passione. La stessa scelta donizettiana di sottrarre alla scena di pazzia della protagonista il canonico statuto di Gran Finale, collocandola al penultimo quadro per lasciare a Edgardo lonore dellepilogo, stempera – in qualche modo – la portata tragica del soprano, in favore di una drammaturgia più “tenoricentrica”. E pure la storia dellinterpretazione ha ribadito questa prospettiva maschilista, sdoganando le Lucie affidate a soprani leggeri: chiare nel timbro, flebili nellaccento, più bamboleggianti che angelicate, virtuosisticamente ferrate ma poco eloquenti in termini di fraseggio. Un dolce usignolo meccanico, insomma: che imprimendo un retrogusto infantile al personaggio ne sancisce limmaturità e, dunque, rende meno ingiustificabili le angherie dei suoi oppressori.
In tale prospettiva, appare impeccabile la scelta di Mary Zimmerman – uno spettacolo proveniente dal Metropolitan, già documentato in dvd – di postdatare lopera dalla Scozia degli Orange e degli Stuart allOttocento vittoriano, momento storico di massima sopraffazione della figura femminile (e di negazione delle sue pulsioni). La “tinta” scozzese dellopera, con le sue voci della brughiera, resta comunque ben presente attraverso la raffigurazione duna natura selvaggia – di grande eleganza pittorica le scene realizzate da Daniel Ostling – in sé niente affatto matrigna, ma irrimediabilmente ostile alla falsità di quel consorzio umano al centro della vicenda, mentre lo spostamento depoca è congruo anche in rapporto al versante da ghost story: un aspetto che per il libretto di Cammarano era soprattutto colore locale, ma per la musica di Donizetti si traduce in una dialettica tra cupezza senza scampo e lirismo lancinante che è la cifra più profonda della Lucia.
Edgardo (Vittorio Grigolo), Enrico (Massimo Cavalletti), Lucia (Albina Shagimuratova). Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano.
Memore forse dei fantasmi vittoriani materializzati nelle pagine di Edith Wharton, in cui è proprio il realismo narrativo ad accentuare laspetto soprannaturale, la regista americana firma una messinscena dove lestrema minuzia naturalistica veicola la componente onirica, anziché infirmarla: la tangibilità di queste presenze extraterrene – lo spettro della donna nella fontana, evocato dalla protagonista durante Regnava nel silenzio, qui appare in palcoscenico – portano lo spettatore a fare proprio il punto di vista di Lucia, anziché circoscrivere la pagina alle prime avvisaglie allucinatorie duna psiche già compromessa. E pure Edgardo, in questo spettacolo, dialogherà con le ombre (quella di Lucia medesima, in cinerea sembianza) prima dellolocausto finale: i fantasmi, insomma, non hanno più bisogno di terrorizzare i vivi perché diventano i vivi stessi, come insegna George Eliot in quel romanzo gotico sui generis che è Il velo dissolto.
Chissà che non sia proprio un indiretto omaggio al Lifted Veil della Eliot il modo con cui la regista impagina la scena della pazzia: a passo catatonico, dallalto di una passerella, Lucia lascia cadere al suolo il suo velo da sposa insanguinato che plana come farfalla ferita, metafora di una deflorazione non consumata ma surrogata dallomicidio. È un momento di gran teatro trasognato e devastante; anche se, forse, la capacità della Zimmerman di costruire le immagini attraverso il dettato musicale trova la massima espressione in quel “momento sospeso” che è il sestetto, qui trasformato in foto-ricordo del matrimonio: il fotografo che sul pizzicato introduttivo allestisce il treppiedi, poi tutti in posa, le posture continuamente aggiustate mentre la musica scorre implacabile, il coro che – nellattimo in cui si unisce ai solisti – si alza per farsi inquadrare a sua volta. Infine, terminata lascesa di tenore e baritono che in tutta rapidità chiude la pagina, il fatidico lampo di magnesio: lo stupore è finito, lazione ricomincia.
Pur con qualche necessario accomodamento nel passaggio da New York a Milano, lo spettacolo resta dunque non solo uno dei rari casi di grande regia donizettiana oggi, ma una messinscena tra le più belle e intelligenti proposte negli ultimi tempi alla Scala. E tuttavia resta limpressione che la Lucia – come tutto Donizetti – sia un titolo su cui i vertici scaligeri non vogliano puntare più di tanto, a giudicare dalla sostanziale modestia della locandina schierata. Pier Giorgio Morandi è responsabile di unesecuzione musicale piuttosto disorganica: recupera le scene che la vecchia tradizione espungeva in toto (la prima aria del basso, il duetto tra tenore e baritono), ma non rinuncia ai classici tagli allinterno dei singoli brani (dunque tanto più destrutturanti); avalla le puntature care allantica prassi esecutiva, comprese le più muscolari; stacca tempi non sempre comprensibili nel loro andamento a fisarmonica, alternando diluiti “rallentando” a subitanee accelerazioni. Latitano laspetto contemplativo e le atmosfere rarefatte, ma quando si tenta la via di un accompagnamento più meditato e dilatato – come nellaria del basso prima ricordata – lincedere orchestrale si fa quasi pachidermico.
Un momento dello spettacolo. Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano
Albina Shagimuratova è una protagonista rispettabile per lintensa compenetrazione con le indicazioni registiche, lottima pronuncia italiana e dei mezzi vocali in sé non memorabili, ma interessanti per come accoppia unorganizzazione canora da tradizionale soprano leggero a un gusto (e unemissione) dimpronta tardoromantico-verista. Vittorio Grigolo è a sua volta un Edgardo senza pregiudizi stilistici, più naturalista che romantico, come daltronde lo vuole la regia e così come prima di lui lo sono stati – con esiti, beninteso, assai più alti – Caruso, Di Stefano, Pavarotti, Carreras. Se il fervore rinvia a questi modelli, un certo sottodimensionamento vocale rispetto ai desiderata del ruolo (la mezzavoce è ai confini del “sotto voce”, il finale viene abbassato) potrebbe invece far pensare allEdgardo di Schipa, ma in una versione ovviamente assai meno cesellata. Né, daltronde, i vari aggiustamenti – in termini di legato, fiati, tonalità – con cui Grigolo semplifica la scrittura valgono a renderlo più sciolto ed espressivo sul piano del fraseggio.
Ancor più opaca la prova di Sergey Artamonov – un basso troppo poco timbrato per rendere giustizia allaltisonante dialettica chiesastica di Raimondo Bidebent – e sbrigativamente virulento, talvolta anche a scapito dellintonazione, Massimo Cavalletti: mentre Enrico Ashton è, sì, baritono vilain, ma con una sua alterigia aristocratica. Alle prese con ruoli più defilati, Juan Francisco Gatell e Barbara Di Castri non possono pareggiare il conto: ma è assai apprezzabile la musicalità serena e signorile con cui il primo affronta laria dello sposino, né passa inosservato lo spessore che la seconda riesce a conferire ad Alisa, facendone tuttaltro che una “spalla” della protagonista nel primo atto e una bella statuina nel sestetto.
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