È ancora possibile in unepoca in cui tutto è già stato detto, in cui tutto è stato scritto, proporre un pensiero che possa essere in qualche modo “originale”? Il post-modernismo, con sagace e provocatoria intuizione, rispondeva, ormai decenni orsono, che lunica possibilità che ci è data è citare il già detto. Questa considerazione pare possa essere premessa generale alla presentazione dellinteressantissimo testo di una delle esponenti più produttive della nostra drammaturgia contemporanea, Lucia Calamaro, drammaturga e regista. LOrigine del mondo-Ritratto di un interno è un testo letteralmente farcito di citazioni e di rimandi, ora fortemente elitari, ora popolarissimi, di libri, quadri e teorie psicanalitiche messe tra virgolette tanto grandi al punto da includere il pensiero intimo, e pratico, dei suoi personaggi; tre donne ritratte nel loro interno domestico/psichico, che citano instancabilmente luoghi comuni o fanno sfoggio di una cultura libresca o biblica raramente attiva. Così descritta la pièce ha tutta laria di essere un freddo esercizio virtuosistico; dovè allora loriginalità? Nella legge che soggiace al testo: per cui se i personaggi sproloquiano a parlare e renderli significanti ci pensano gli oggetti. Tantissimi oggetti.
LOrigine del mondo si compone di tre episodi, e tre sono le attrici che lo agiscono: la madre (Daria Deflorian), la figlia/psicanalista (Federica Santoro) e la nonna (Daniela Piperno che allagherà il secondo episodio) impegnate nella non facile gestione del disagio esistenziale, grave sindrome depressiva, che da sempre avvilisce la prima di queste donne, la madre Daria.
A sipario “assente”, sulla scena buia, aspettano lingresso del pubblico le due attrici più giovani e un frigorifero. Questo diventa subito il fulcro dellazione e grazie a lui affiorano i primi sintomi del male di Daria, in questo caso una fame nervosa che la porta ad aprire e chiudere convulsamente lelettrodomestico, ad assaggiare e metter via pezzi di mozzarella accompagnati da dita di marmellata ammuffita. Con loro la figlia Federica, personaggio grottesco e ambivalente fin dal trucco dellattrice che ne blocca lespressione del viso in un ghigno a metà tra bambola assassina e clown, e con il quale lattrice gioca per sottolineare lo scarto tra il doppio personaggio che interpreta: figlia e psicanalista. Ed è interessante lo sdoppiamento di questa figura perché rimanda al disequilibrio dei rapporti famigliari malati, in cui spesso i ruoli si invertono e lelemento più fragile diventa quello di sostegno. Federica Santoro ci mostra, attraverso un azzeccato gioco di mimica, certo sostenuto dal trucco delle palpebre, una stereotipata bambinetta saccente, ad occhi aperti, e un medico vanesio che rimanda ritmicamente al prossimo appuntamento, ad occhi chiusi.
Daria Deflorian dialoga con i suoi pensieri e nel suo abito panna bon-ton e con i capelli raccolti in uno chignon, è molto brava a evidenziare attraverso gli indizi di una silhouette asciutta e le pantofole da casa, la sua difficoltà ad entrare in relazione con gli altri, in particolare con il fuori. Le uscite, ridotte al minino, spossano e prostrano lattrice che, al rientro da ununitile spesa, si sente “un barattolo in una natura morta di Morandi” - ancora un oggetto - si appoggia al tavolo da cucina, e interpreta parte della scena in posizione obliqua. Punto di vista distorto che ci viene mostrato e non solo raccontato.
Federica Santoro e Daniela Piperno. Foto di Futura TittaFerrante.
Il secondo episodio si accende del giallo del fondale che inquadra una lavatrice arancio troneggiante al centro della scena e affiancata da un grande armadio bianco di cui vediamo solo il lato stretto. Al brio dellimpianto scenografico, e dei due comunissimi personaggi darredo, risponde lesuberante recitazione della Nonna (Daniela Piperno). Lattrice, nel ruolo che era stato della Calamaro, piega la sua verve comica a una misurata, familiare ironia. Ridiamo della citazione di un “archetipo” (come lattrice stessa definisce il suo personaggio), di battute note, di un personaggio caro, che però fa, tocca, rassetta, maneggia gli oggetti, fino a spingersi ad una “apologia dello spazzolino del wc e dello strofinaccio”. È familiare perché, in un mondo malato tanto simile ai nostri interni domestici, riconosciamo, forse, in questa figura una capacità pratica: elemento macchiettistico più degli altri, ma che, più degli altri, veicola un senso di realtà.
Lucia Calamaro tende a creare in scena un universo autonomo che si struttura attraverso la contrazione di un tempo molto lungo che nel terzo episodio ci fa fare un salto, probabilmente, di anni, mostrando i risultati di una cura poco efficace, sintetizzata ancora in immagine: le gambe della Deflorian che fuoriescono dallarmadio-tana in cui si è abbandonata. Assistiamo allinutilità di un percorso di guarigione mai arrivato a un incontro reale. Daria e la psicanalista (che pian piano si differenzia rispetto alla figlia) non dialogano, parlano entrambe attraverso i propri pensieri, non si incontrano e rimangono avvolte nella loro personale solitudine. Solitudine con la quale si può infine imparare a convivere, male di vivere che esce dalla patologia per il fatto di essere terribilmente comune: lultima immagine è quella di una madre e di una figlia ormai grande a un acquaio da cucina, che occupa adesso il posto di rilievo che era stato della lavatrice e del frigorifero. Il buio arriva quando il discorso si sposta sul dato economico:«Quanti soldi ti servono?», mentre il rubinetto aperto continua a parlare.
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