Tratto dal libro Il lupo di Wall Street, autobiografia di Jordan Belfort, il film di Martin Scorsese traduce in immagini la parabola professionale e personale dellautore, da aspirante broker a truffatore milionario, allinevitabile arresto e declino.
The Wolf of Wall Street si trasforma ben presto in una giostra celebrativa del genio malin del protagonista che, in unescalation edonistica fatta di alcol, sesso e droga, spiega – spesso interrompendo bruscamente la finzione con “a parte” esplicitamente diretti allobiettivo – le astuzie che gli valsero milioni di dollari di introiti.
Tra ammirazione e moralismo latente, questultimo per la verità scevro da eccessiva retorica e presente in misura minima, Scorsese racconta soprattutto un circo di aneddoti che francamente esaurisce ben presto il potenziale di interesse e stupore col quale esordisce. Il risultato è che la ricetta annoia rapidamente, annegando nel parossismo vizioso di Belfort linteresse della vicenda umana in sé.
Laffastellamento di dissolutezze ricorda per certi versi landamento parimenti aneddotico di Paura e delirio a Las Vegas (Fear and Loathing in Las Vegas, Terry Gilliam, 1998), senza peraltro lo stesso portato di innovazione visiva. Non che la regia per questo difetti, ma se non altro in quel caso linvenzione onirico-iconografica valeva da sola a giustificare lintera operazione nonostante linnegabile ripetitività che la caratterizzava. “A parte” e movimenti di macchina anche brevi che “scoprono” i personaggi nel profilmico, conditi con una fotografia (Rodrigo Prieto) brillante, “laccata” e patinata come la rutilante Wall Street che descrive, sono gli elementi che concorrono a una tecnica registica di per sé comunque ineccepibile, tuttavia al servizio di uno schema ripetitivo e per questo inconsistente.
Leonardo Di Caprio in una delle sue interpretazioni più convincenti è giustamente candidato allOscar: nel film trascolora senza soluzione di continuità dallingenua ammirazione del novellino di Wall Street allesaltato leader-truffatore della Stratton Oakmont, la società di brokeraggio da lui fondata, agli spasmi sotto la dose massiccia dellennesimo tipo di droga, allimprobabile quiescenza del finale.
Nel cast anche Matthew McConaughey, perfettamente a suo agio nel ruolo dellalligatore dellalta finanza e Jean Dujardin, che calza a pennello i panni di un viscido banchiere svizzero che comunica “telepaticamente” con Belfort, unto come il gel che dà forma ai suoi capelli.
Dopo il meraviglioso affresco cinéphile di Hugo Cabret Scorsese, alla sua seconda produzione in digitale, delude dimostrando ad ogni modo di essere a suo agio con il nuovo formato.
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