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Il doloroso gioco ridicolo dell’ipocrisia

di Gianni Poli
  Il Tartufo
Data di pubblicazione su web 20/01/2014  

 

Quando l’attualità dei classici viene dimostrata col ricorso all’attualizzazione (pur senza l’ambientazione ai nostri giorni), si corre il rischio d’uno sfasamento tra la valutazione della bellezza dell’opera e il piacere dello spettacolo, con una perdita in profondità di visione. È un po’ quanto accade nell’allestimento del Tartufo diretto da Marco Sciaccaluga con la Compagnia del suo Teatro Stabile genovese. La  rappresentazione richiama quella con la regia di Benno Besson, data nel 2000 per lo stesso Teatro (e alla quale Sciaccaluga partecipò come attore). Nella nuova distribuzione, i ruoli della coppia principale sono di Eros Pagni (Orgon) e di Tullio Solenghi (Tartufo). Proprio al loro contributo (sperimentato recentemente con successo nel lavoro su misura dei Ragazzi irresistibili) si affida l’edizione odierna. Per la sua interpretazione del capolavoro secentesco, quale modello di critica potente della società e strumento rivelatore della natura umana, Sciaccaluga sceglie un paradosso molièresque: «Molière non mette lo spettatore davanti a un caso morale e alla responsabilità di decidere chi ha torto e chi ragione. La verità sta con evidenza tutta da una parte, ma l’arte di Molière ci costringe a ridere del fatto che non basta vedere per non essere ciechi, costruendo il ridicolo proprio sullo scarto tra il pensiero e l’azione». Ipotesi critica che lo guida a scelte rappresentative immediatamente e sicuramente cattivanti. Il meccanismo di «commedia strutturata a suspense» gli facilita la via all’uso di ritmi serrati (i cinque atti in due parti, con intervallo dopo il terzo, durata 3 h 45 min.). Il regista eredita da Besson l’idea che la tartufite sia la malattia contagiosa che colpisce Orgon. Infatti, il movente del suo comportamento abnorme, causa di confusione fino alla rovina della sua famiglia, è colto nell’«innamoramento» per il suo pupillo, falso devoto beneficato e innalzato a ideale di vita, in forza di un sentimento patologico. C’entrano anche i condizionamenti dell’educazione, le convenienze frutto d’una religiosità di facciata, gli alibi dei tabù e delle fobie dello scandalo. Ora che tali ingredienti sollecitano meno interesse e fantasia, sono piuttosto le risorse della teatralità pura a motivare la messa in scena e ad attrarre lo spettatore. Del resto, un critico e traduttore insigne come Cesare Garboli, sosteneva che Tartufo fosse «il teatro stesso, gioco bello e terribile». Lo spettacolo slitta a volte verso la commedia all’italiana cinematografica, sia pure in linguaggio versificato. Della nuova traduzione non avverto la necessità: malgrado la maestria metrica (l’alessandrino è reso col doppio settenario) e la sensibilità lessicale di Valerio Magrelli – che fa prevalere la fedeltà sull’invenzione – non mi pare s’aggiunga qualcosa d’essenziale a quella di Patrizia Valduga (per l’edizione 2000), tant’è che l’autore ammette i debiti verso le prove dei valenti predecessori, Sandro Bajini (1984) e Flavia Mariotti (2013).

 


Tullio Solenghi (Tartufo) e Mariangeles Torres (Elmire).
Foto di Giuseppe Maritati.


Il salone di una ricca casa borghese, con affreschi e arazzi di imponenti mitologie classicheggianti, è la scena unica in cui la recitazione assume la prevalenza espressiva. Si avverte, nella coppia prima, il rischio del dilagare delle gags e un controllo nel limitarne gli effetti. In episodi come il dialogo seguito alla denuncia di Damis della tentata seduzione e dell’autocondanna di Tartufo, Solenghi volge in parodia i toni quasi masochistici della sua confessione istrionica. La sua pietà ostentata e il prestigio carpito per circonvenzione, lo illudono di poter conciliare la Bibbia (meglio, il Libro di devozioni) con l’inganno, l’ipocrisia e il tradimento. Pertanto, l’adescamento proposto come «incidente probatorio» da Elmire (una Mariangeles Torres misurata, nella bella, disarmante metamorfosi davanti al velleitario impudente) consente un crescendo di profferte e gesti espliciti, ad avvalorare un sottotesto già ricco e allusivamente esauriente. Tartufo si cala i pantaloni, dinanzi alla facile preda offerta sul tavolo da pranzo; Orgon segna con gesto volgare il pericolo scampato dalla moglie. Eros Pagni (che era stato il Tartufo precedente), smagrito in viso e particolarmente asciutto in dizione ed eloquio, è un Orgon plagiato dal Grande Impostore; finché alla scoperta della verità, cede e si dispera, da svenire. Nel confronto con Solenghi, rinuncia alla gara di virtuosismo, sempre comunque un po’ latente. Antonio Zavatteri è suo cognato Cléante, insistente e sincero nel metterlo in guardia e nell’arginare l’invadenza dell’intruso. Pernelle è la nonna (nel travestimento in nero sostenuto da Massimo Cagnina), caratterizzata dall’autoritario conformismo passatista, senza autorevolezza e bersaglio dell’intera famiglia. In Dorine, più amica che dama di compagnia di Mariane, eccelle Barbara Moselli. La giovane attrice si afferma protagonista per calore e trasporto e certo con qualche enfasi, nell’uso ripetuto dei registri acuti. Ma è ora tenera e generosa, con Mariane, ora aggressiva e risoluta con Tartufo. Domina nel primo Atto, in funzione di preziosa tessitrice degli affetti familiari autentici e quando denuncia e risolve gli intrighi. Il regista interviene drammaturgicamente nel finale, per rafforzarne il lieto fine. Laddove Molière lo affidava all’artificio semplice della convenzione, qui un Attore fra il pubblico esclama: «Non può finire così! Questa è una commedia!». Si impone lo scioglimento da deus-ex-machina non soltanto per l’atto della provvidenza del potere, ma aggiungendo alla didascalia la calata di due statue allegoriche dal cielo (sotto una nevicata di lustrini). E laddove Besson includeva l’Inno al Re di Molière, musicato da Lulli, Sciaccaluga dispiega una lode corale all’illuminata figura del Re Sole. Nell’allegria per le nozze annunciate di Mariane e Valère, nella simpatica confusione e nell’unanimità di accenti e sentimenti, finisce uno spettacolo segnato da applausi a scena aperta, che premiano il lavoro di un gruppo affidabile e affiatato, per una distribuzione congrua, insolita ormai nei nostri Teatri.

 

 

Il Tartufo
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