Quando, nellultimo decennio dellOttocento, Italo Svevo pubblica i suoi primi romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898) rimbalzano silenziosi sul muro indifferente della critica. Lassist promotore di Eugenio Montale e James Joyce evita a La coscienza di Zeno (1923) lo stesso risultato. Nei libri di scuola si legge che i tempi erano ormai cambiati, il gusto del pubblico mutato e le opere sveviane potevano essere a quellaltezza cronologica, finalmente, capite.
Questi stessi manuali, da sempre, fanno a gara per spiegarci Zeno Cosini e le sue avventure. Così è! - sembrano dire - e se vi va di leggerlo, ben venga altrimenti basta che ricordiate due comode chiavi di lettura: inettitudine e psicanalisi. Conclusione, provocatoria, è ovvio: nessuno la legge.
Da questo punto di vista, il regista Maurizio Scaparro e Tullio Kezich, autore delladattamento drammaturgico, riescono laddove la critica letteraria ha fallito: nella promozione dellopera. Almeno questa volta (diciamo pure: ancora una volta) il teatro vince, soccorre la prosa letteraria. La sala della Pergola è piena di giovani che forse dopo, ci auguriamo, apriranno anche il libro.
Giuseppe Pambieri nei panni di Zeno (Foto di Angelo Redaelli)
Lo spettacolo ci presenta Giuseppe Pambieri protagonista delle avventure di Zeno che è “a vicenda” sano e malato, vittima e colpevole, sincero e bugiardo. E chi meglio di un attore potrebbe mostrarci le contraddizioni del proprio ruolo e di quelli assegnatigli da altri? Chi più di lui si inganna e ci inganna presentando per vero ciò che tutti sappiamo fasullo? Quale arte, se non il teatro, ha lobbligo di preoccuparsi del pubblico, dellimmediato e della riuscita? Così, allinattendibilità del narratore Zeno si somma quella dellattore e del mondo teatrale in cui vive. Ai rischi della scrittura, alla sua ricerca di consenso si aggiunge la grande incognita del palco, di chi ogni sera ci gioca la sua partita.
Ecco che lallestimento di Scaparro si apprezza per le sue scelte di comprensibilità. Tagliati quasi tutti i riferimenti più “cervellotici”, via i capitoli prettamente tematici (come quello sul fumo) i cui leitmotive sono disseminati nello svolgersi della rappresentazione, pochi sogni, diversi e inevitabili monologhi al pubblico e predilezione per gli episodi narrativi.
Un bravo Francesco Wolf impersona lantagonista Guido Speier e la sua scapataggine ben si presta a sottolineare, di contro, la caratteristica di Zeno attorno alla quale tutto lo spettacolo ruota e su cui regista e attore puntano: lironia. Qualità già presente nello Zeno di carta, lironia è pressoché lunica dello Zeno in carne ed ossa, decisamente quella dominante. Scelta più o meno condivisibile, che va a scapito della poliedricità del personaggio, della sua singolarità e profondità. Troppo epurato dei suoi vizi, della sua vigliaccheria e meschinità? Forse sì. Sta di fatto che Pambieri e quel suo fiocchettino ci risultano quasi amabili. Zeno e la sua verbosa coscienza ci fanno sorridere. Chi lavrebbe mai detto!
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