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Sacerdotessa ribelle (con orsacchiotto)

di Paolo Patrizi
  Ifigenia in Tauride
Data di pubblicazione su web 13/01/2014  

 

Traetta e Jommelli furono, per carriera e forma mentis, i più “tedeschi” tra i grandi operisti della Scuola Napoletana del diciottesimo secolo: inclini, cioè, a un’equilibrata fusione tra versante vocale e strumentale; a uno svisceramento espressivo del recitativo accompagnato; e alla ricerca di una verità drammatica che travalicasse i lidi psicologicamente incontaminati del puro belcanto. Composta nel 1763 per Vienna, Ifigenia in Tauride di Traetta coglieva poi sollecitazioni che erano nell’aria, anticipando – al contempo – certi traguardi dei decenni successivi: una quindicina d’anni dopo sarebbe arrivata l’omonima opera di Gluck, per la goethiana Iphigenie auf Tauris bisognerà aspettare il 1787: e, col senno di poi, la drammaturgia musicale messa a punto da Traetta lascia presagire proprio quel senso di armonia e unitarietà che informa il testo di Goethe, assai più della severità disadorna caratterizzante l’Ifigenia dell’anziano Ritter Gluck.

 

Da tre anni le stagioni operistiche di Heidelberg propongono, nella magnifica sede del Rokokotheater a Schwetzingen (la settecentesca residenza del principe elettore, a una decina di chilometri dal centro cittadino), un appuntamento con la Scuola Napoletana: e, dopo lo Scarlatti e il Porpora delle annate precedenti, l’osmosi veicolata da Traetta tra sensibilità tedesca ed estetica musicale partenopea è forse la tappa più significativa del percorso, come l’entusiasmo del pubblico sembra confermare. Peccato solo che in tanta feconda dialettica italo-germanica, ben presente pure sul fronte architettonico (al progetto del Rokokotheater mise mano Galli Bibiena), mancassero voci italiane, tali da garantire l’idiomaticità del canto (la musica di Traetta proietta con estrema nettezza i versi di Marco Coltellini) e quella sfericità di emissione imprescindibile in questo repertorio, nei passaggi virtuosistici non meno che nei momenti di recitar cantando. E se assemblare un cast di madrelingua non era possibile, dato che il Teatro di Heidelberg ha una propria compagnia, almeno per quanto riguarda la protagonista – per la quale si è attinto a una cantante ospite – si poteva scegliere un’Ifigenia di scuola italiana, tanto più che la guest singer Aleksandra Zamojska non è il punto forte della locandina.

 


Una scena corale dell'Ifigenia in Tauride. Credits: Florian Merdes

 

Il palcoscenico, comunque, appare equilibrato: il rischio di monotonia insito nelle distribuzioni vocali di quest’opera (due personaggi scritti per castrato e altri due per soprano, più un tenore) viene aggirato affidando i ruoli per evirato cantore – Oreste e Pilade – l’uno a un controtenore, l’altro a un soprano en travesti, ottenendo così una congrua differenziazione psicologico-coloristica tra i due inseparabili amici. La bacchetta di Wolfgang Katschner rappresenta poi una buona pasta amalgamatrice, capace di coordinare il quintetto protagonistico con giusto senso delle proporzioni (il concertatore non sembra prendere posizione a favore di alcun personaggio, la musica scorre come narrata oggettivamente in terza persona) e di evidenziare le squisitezze formali della partitura –  il trattamento del coro, in primo luogo – senza venir meno alla compattezza drammatica di fondo.

 

Alcuni elementi della compagnia del Theater Heidelberg sono da tenere a mente: né Irina Simmes Rinnat Moriah possono dirsi vocalità debordanti, ma la prima s’impone per un’intensità espressiva davvero autorevole, messa ben a frutto nel delineare gli slanci androgini di Pilade; mentre la seconda convince per la misurata musicalità con cui tratteggia il ruolo affettuoso e ancillare (e, se si vuole, ancora un po’ metastasiano) della confidente disposta al sacrificio. Su tutti, però, emerge il controtenore Artem Krutko: voce oltremodo variegata per impasti e colori, quasi ai confini d’una fertile disomogeneità timbrica che, però, non va mai a scapito dell’omogeneità dell’emissione. Il suo Oreste, intenso nell’orrore come nel compianto, mostra un artista non meno ferrato del vocalista: e la supplica alle Furie che lo tormentano – una pagina dove Traetta descrive la disperazione con toni sommessamente elegiaci – è, in questa interpretazione, un momento non solo di belcanto, ma di ottimo teatro.

 


Artem Krutko (Oreste) Credits: Florian Merdes

 

Non sempre a suo agio invece Namwon Huh nel ruolo spietato di Toante (la parte, per impegno virtuosistico e tessitura baritenorile, è davvero ardua), mentre la Zamojska è protagonista compenetrata, ma discontinua. Soprattutto nei recitativi è palese una notevole personalità: appunto per questo, però, non si vede perché il soprano polacco debba adagiarsi su affettazioni e manierismi – a cominciare da certi sussurri ansimanti – che ricalcano la Gruberova ultima maniera (e la Cecilia Bartoli di sempre), anziché affidarsi alle proprie doti naturali e alla fiducia nelle capacità espressive del puro canto. L’impressione è la ricerca di un tono naturalistico-quotidiano che, programmaticamente, disinneschi la dimensione mitica di Ifigenia, quel profilo “alto” e quel porgere amplificato che – in Traetta come in Gluck, in Euripide come in Goethe – rientrano nello statuto imprescindibile del personaggio. D’altronde pure la messinscena tendeva a una modernizzazione che, attualizzando la vicenda, in qualche modo rinunciava alla dimensione archetipica.

 

Il regista Rudolf Frey realizza uno spettacolo zigzagante tra disparate sollecitazioni visive (scene e costumi sono di Aurel Lenfert), talune intriganti, talaltre antiestetiche: dall’incombente muro nero su cui si apre il sipario, e sbarra la strada a Oreste e Pilade appena sbarcati, all’ara sacrificale di Toante tradotta in un asettico laboratorio di torture biancoplastificato, memore forse di Arancia meccanica. La scena delle Furie è poi risolta con maschere cabarettistico-espressioniste vagamente in stile Berliner Ensemble, mentre la protagonista indossa una mise da ragazza anni Settanta, mirante a delineare un’Ifigenia ribelle e contestatrice più che virginea e sacerdotale. In questo, d’altronde, l’ammodernamento è in linea con il libretto, che rinuncia al Deus ex machina e accorda il lieto fine solo grazie all’uccisione di Toante da parte dell’eroina: un’apoteosi del tirannicidio tanto apparentemente progressista (Coltellini fu l’editore di Dei delitti e delle pene di Beccaria) quanto, nella sostanza, funzionale a difendere le ragioni di quel dispotismo illuminato da cui Traetta e i suoi colleghi ricavavano committenze musicali.
 


Un momento della messinscena. Credits: Florian Merdes

 

Se spostamenti d’epoca e attualizzazioni rischiano la prosaicità, ciò che funziona bene, in questa regia, sono i rapporti tra i personaggi. Quella sorta di quadrilatero (l’indivisibile coppia maschile formata da Oreste e Pilade, e quella femminile altrettanto coesa con Ifigenia e Dori) trasformato in un pentagono dalla presenza destabilizzatrice di Toante è reso felicemente, grazie all’ottimo lavoro sulla recitazione dei cantanti e a una drammaturgia che trova il proprio baricentro nel rapporto ricattatorio – ma anche subliminalmente erotico – tra la protagonista e il re tracio: sorta di padre-padrone che, per Ifigenia, rischia di diventare un succedaneo del non meno devastante genitore biologico Agamennone. Nonostante qualche affondo psicanalitico di troppo (le infinite scatole di scarpe…) il gioco si sviluppa come un intrigante Kammerspiel della crudeltà; e il coniglietto e l’orsacchiotto di peluche con cui si balocca Ifigenia diventano, in mano a Dori quando nell’aria Or palpita e freme canta l’amicizia tra Oreste e Pilade, la più sarcastica requisitoria contro la pochezza maschile: la vera solidarietà è tra donne, l’intimità tra uomini ha lo stesso spessore di due pupazzi per bambini.

 

 

Ifigenia in Tauride
Dramma per musica in tre atti


cast cast & credits


Irina Simmes (Pilade)
Credits: Florian Merdes  
 
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