Traetta e Jommelli furono, per carriera e forma mentis, i più “tedeschi” tra i grandi operisti della Scuola Napoletana del diciottesimo secolo: inclini, cioè, a unequilibrata fusione tra versante vocale e strumentale; a uno svisceramento espressivo del recitativo accompagnato; e alla ricerca di una verità drammatica che travalicasse i lidi psicologicamente incontaminati del puro belcanto. Composta nel 1763 per Vienna, Ifigenia in Tauride di Traetta coglieva poi sollecitazioni che erano nellaria, anticipando al contempo certi traguardi dei decenni successivi: una quindicina danni dopo sarebbe arrivata lomonima opera di Gluck, per la goethiana Iphigenie auf Tauris bisognerà aspettare il 1787: e, col senno di poi, la drammaturgia musicale messa a punto da Traetta lascia presagire proprio quel senso di armonia e unitarietà che informa il testo di Goethe, assai più della severità disadorna caratterizzante lIfigenia dellanziano Ritter Gluck.
Da tre anni le stagioni operistiche di Heidelberg propongono, nella magnifica sede del Rokokotheater a Schwetzingen (la settecentesca residenza del principe elettore, a una decina di chilometri dal centro cittadino), un appuntamento con la Scuola Napoletana: e, dopo lo Scarlatti e il Porpora delle annate precedenti, losmosi veicolata da Traetta tra sensibilità tedesca ed estetica musicale partenopea è forse la tappa più significativa del percorso, come lentusiasmo del pubblico sembra confermare. Peccato solo che in tanta feconda dialettica italo-germanica, ben presente pure sul fronte architettonico (al progetto del Rokokotheater mise mano Galli Bibiena), mancassero voci italiane, tali da garantire lidiomaticità del canto (la musica di Traetta proietta con estrema nettezza i versi di Marco Coltellini) e quella sfericità di emissione imprescindibile in questo repertorio, nei passaggi virtuosistici non meno che nei momenti di recitar cantando. E se assemblare un cast di madrelingua non era possibile, dato che il Teatro di Heidelberg ha una propria compagnia, almeno per quanto riguarda la protagonista per la quale si è attinto a una cantante ospite si poteva scegliere unIfigenia di scuola italiana, tanto più che la guest singer Aleksandra Zamojska non è il punto forte della locandina.
Una scena corale dell' Ifigenia in Tauride. Credits: Florian Merdes
Il palcoscenico, comunque, appare equilibrato: il rischio di monotonia insito nelle distribuzioni vocali di questopera (due personaggi scritti per castrato e altri due per soprano, più un tenore) viene aggirato affidando i ruoli per evirato cantore Oreste e Pilade luno a un controtenore, laltro a un soprano en travesti, ottenendo così una congrua differenziazione psicologico-coloristica tra i due inseparabili amici. La bacchetta di Wolfgang Katschner rappresenta poi una buona pasta amalgamatrice, capace di coordinare il quintetto protagonistico con giusto senso delle proporzioni (il concertatore non sembra prendere posizione a favore di alcun personaggio, la musica scorre come narrata oggettivamente in terza persona) e di evidenziare le squisitezze formali della partitura il trattamento del coro, in primo luogo senza venir meno alla compattezza drammatica di fondo.
Alcuni elementi della compagnia del Theater Heidelberg sono da tenere a mente: né Irina Simmes né Rinnat Moriah possono dirsi vocalità debordanti, ma la prima simpone per unintensità espressiva davvero autorevole, messa ben a frutto nel delineare gli slanci androgini di Pilade; mentre la seconda convince per la misurata musicalità con cui tratteggia il ruolo affettuoso e ancillare (e, se si vuole, ancora un po metastasiano) della confidente disposta al sacrificio. Su tutti, però, emerge il controtenore Artem Krutko: voce oltremodo variegata per impasti e colori, quasi ai confini duna fertile disomogeneità timbrica che, però, non va mai a scapito dellomogeneità dellemissione. Il suo Oreste, intenso nellorrore come nel compianto, mostra un artista non meno ferrato del vocalista: e la supplica alle Furie che lo tormentano una pagina dove Traetta descrive la disperazione con toni sommessamente elegiaci è, in questa interpretazione, un momento non solo di belcanto, ma di ottimo teatro.
Artem Krutko (Oreste) Credits: Florian Merdes
Non sempre a suo agio invece Namwon Huh nel ruolo spietato di Toante (la parte, per impegno virtuosistico e tessitura baritenorile, è davvero ardua), mentre la Zamojska è protagonista compenetrata, ma discontinua. Soprattutto nei recitativi è palese una notevole personalità: appunto per questo, però, non si vede perché il soprano polacco debba adagiarsi su affettazioni e manierismi a cominciare da certi sussurri ansimanti che ricalcano la Gruberova ultima maniera (e la Cecilia Bartoli di sempre), anziché affidarsi alle proprie doti naturali e alla fiducia nelle capacità espressive del puro canto. Limpressione è la ricerca di un tono naturalistico-quotidiano che, programmaticamente, disinneschi la dimensione mitica di Ifigenia, quel profilo “alto” e quel porgere amplificato che in Traetta come in Gluck, in Euripide come in Goethe rientrano nello statuto imprescindibile del personaggio. Daltronde pure la messinscena tendeva a una modernizzazione che, attualizzando la vicenda, in qualche modo rinunciava alla dimensione archetipica.
Il regista Rudolf Frey realizza uno spettacolo zigzagante tra disparate sollecitazioni visive (scene e costumi sono di Aurel Lenfert), talune intriganti, talaltre antiestetiche: dallincombente muro nero su cui si apre il sipario, e sbarra la strada a Oreste e Pilade appena sbarcati, allara sacrificale di Toante tradotta in un asettico laboratorio di torture biancoplastificato, memore forse di Arancia meccanica. La scena delle Furie è poi risolta con maschere cabarettistico-espressioniste vagamente in stile Berliner Ensemble, mentre la protagonista indossa una mise da ragazza anni Settanta, mirante a delineare unIfigenia ribelle e contestatrice più che virginea e sacerdotale. In questo, daltronde, lammodernamento è in linea con il libretto, che rinuncia al Deus ex machina e accorda il lieto fine solo grazie alluccisione di Toante da parte delleroina: unapoteosi del tirannicidio tanto apparentemente progressista (Coltellini fu leditore di Dei delitti e delle pene di Beccaria) quanto, nella sostanza, funzionale a difendere le ragioni di quel dispotismo illuminato da cui Traetta e i suoi colleghi ricavavano committenze musicali.
Un momento della messinscena. Credits: Florian Merdes
Se spostamenti depoca e attualizzazioni rischiano la prosaicità, ciò che funziona bene, in questa regia, sono i rapporti tra i personaggi. Quella sorta di quadrilatero (lindivisibile coppia maschile formata da Oreste e Pilade, e quella femminile altrettanto coesa con Ifigenia e Dori) trasformato in un pentagono dalla presenza destabilizzatrice di Toante è reso felicemente, grazie allottimo lavoro sulla recitazione dei cantanti e a una drammaturgia che trova il proprio baricentro nel rapporto ricattatorio ma anche subliminalmente erotico tra la protagonista e il re tracio: sorta di padre-padrone che, per Ifigenia, rischia di diventare un succedaneo del non meno devastante genitore biologico Agamennone. Nonostante qualche affondo psicanalitico di troppo (le infinite scatole di scarpe
) il gioco si sviluppa come un intrigante Kammerspiel della crudeltà; e il coniglietto e lorsacchiotto di peluche con cui si balocca Ifigenia diventano, in mano a Dori quando nellaria Or palpita e freme canta lamicizia tra Oreste e Pilade, la più sarcastica requisitoria contro la pochezza maschile: la vera solidarietà è tra donne, lintimità tra uomini ha lo stesso spessore di due pupazzi per bambini.
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