Mettiamo a confronto due diverse letture critiche de L'invenzione della solitudine di Paul Auster per la regia di Giorgio Gallione. Al centro, in entrambi i casi, l'interpretazione dell'unico attore in scena, Giuseppe Battiston. Proponiamo per prima la recensione della nostra redattrice Caterina Nencetti.
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Non era facile. Linvenzione della solitudine di Paul Auster è unopera che nasce nellintimità e per lintimità. Non è un testo teatrale. Può diventarlo se, oltre che ridurlo, lo si adatta alla personalità dellattore, al lessico, alla sintassi, ad unaltra vita, che è la nostra. Non cè rischio di snaturarlo, anzi, è lodevole la presa datto che, altrimenti facendo, non si riesce a dirlo, a recitarlo e a sentirlo proprio. Quindi, ripeto, non era facile.
Tra le scene di Giorgio Fiorato e sulle note di Stefano Bollani, cerca di orientarsi un Giuseppe Battiston il cui corpo poteva essere strumento preziosissimo alla creazione del personaggio. Figlio, padre, uomo. Costretto allimbarazzo dalla morte di un padre che non conosce, che ama e odia, che ci descrive prima come il più spietato e un attimo dopo come un samaritano, il protagonista fa i conti con la propria vita di figlio e di padre ugualmente o diversamente non allaltezza.
Forse non avremmo dovuto leggere, ma soltanto vedere. Fatto sta che Battiston non convince. Frasi strozzate mirano allempatia con lo spettatore, ma risultano dette, troppo distaccate e monocordi. Si poteva farne una lettura. Si poteva procedere fissando, con cambi dinterpretazione, i diversi momenti dellevoluzione psicologica del protagonista e variare, e puntare, su alcuni in particolare, come quello dellinfanzia. Tutto risulta invece sullo stesso piano demotività. Tutto troppo alla pari. Solo per alcune battute ironiche o in certi attimi che sembrano di distacco dal racconto, laffiorare del leggerissimo accento friulano ci cattura, come quando il protagonista ci spiega il gioco che faceva col padre: «Bisognava colpire la moneta con la pallina». Proprio quei momenti, che sembrano di troppo, funzionano.
«Un giorno cè la vita. [...] Poi dimprovviso capita la morte», ma niente ci persuade che quella vita e quella morte siano di un padre perché non sentiamo il figlio. Se non percepiamo lamore, lassenza, il dubbio, la ferita, la rabbia e ancora, un qualche esempio di confusione, di incapacità, un perdono forse, semplicemente non ci concentriamo e non ci crediamo.
Restiamo così, con la conferma delle grandi capacità di un attore le cui particolarità e curiosità stilistiche non sono state sfruttate. Eppure, non cerano motivi per non giocarsela.
Giuseppe Battiston. Foto di Bepi Caroli.
Segue il parere del nostro collaboratore Gianni Poli.
Padre e figlio specchiati in un unico destino
In una casa abbandonata, in una camera ingombra di scarpe e di vestiario, torna in visita il Figlio dopo la morte del Padre che vi abitava. Giacche, camicie e scarpe sono disseminate sul pavimento che si riflette sul muro di fondo in uno specchio inclinato e sghembo. Sotto tale metafora visiva della confusione, savvia il ricordo scenico, dilagante e tormentoso, del protagonista di Linvenzione della solitudine (1982), romanzo di memorie autobiografiche di Paul Auster. Giorgio Gallione prosegue nelladattare per la scena i testi che la sua sensibilità accoglie dalla letteratura contemporanea, con un lavoro di originale trasposizione drammaturgica. Qui, nel rispetto delle due parti del libro, Ritratto di un uomo invisibile e Il libro della memoria, si parte dunque dalla condizione di figlio dun genitore lontano, irriconoscibile e sempre sottrattosi al dialogo, per concludere misurandosi con la propria paternità vissuta nel rapporto con Daniel, nato da un matrimonio ormai finito. Il tema vive in una scrittura precisa e controllata sia nelle emozioni sia nei giudizi. La partecipazione viscerale al dolore e allo smarrimento seguiti alla morte del padre è resa con grande efficacia comunicativa, risultato di mezzi espressivi cauti e smorzati. Pur sempre una narrazione («Ricordo che… Quel giorno… Quando… Una volta…») che affidata allattore, comporta una mediazione profonda per evidenziare nellattualità viva del narrante, la vicenda sentita e rielaborata con fatica dal protagonista. Questi si riconosce nel ruolo di interprete, vedendosi mentre agisce e pensa, anche mediante leffetto di rispecchiamento fisico, speculare.
Certo, lo spettacolo è tutto affidato alla presenza forte e delicata di Giuseppe Battiston. Come sciolto dallimpaccio della sua mole, egli vaga lieve e deciso nello spazio, spesso soltanto mentale, animato dagli elementi visivi della scena che percorre e attraversa; delle luci sotto cui variano le apparizioni di particolari significativi, come la collezione di cravatte o il caotico accumulo degli indumenti. Minime le azioni dellattore, quali raccogliere le scarpe a ricomporne le paia, indossare un cappotto, curvarsi su un libro in unimmaginaria biblioteca dove può leggere le poesie di un figlio giovane, apprendista scrittore a Parigi. Si delinea così il profilo del padre mancato, un uomo «dominato dallindifferenza», immerso nel «vuoto», rappresentante duna ansiogena «assenza». Battiston lo analizza con esattezza dolente, con riflussi di rabbia e indignazione, con gesti talvolta sospesi. Come quando da bambino, battezzandosi John, sidentificava cow-boy; o quando invoca, nel balzo duno scoiattolo, la leggerezza del volo. Vengono allora i silenzi più lunghi, pause molto sensibili nel ritmo pur sempre ben teso della narrazione. Sono anche i «pieni» delle rare note del pianoforte di Stefano Bollani (non tanto la «musica del caso» che ritma il destino, ma risonanze di unintimità ferita) a fluttuare nellatmosfera di lutto e di clausura. In quella ricostruzione frettolosa, scritta nel timore che sparisca limpressione repentina del trauma, è lo scrittore a sentirsi responsabile di un«opera» di testimonianza intenta alloggettivazione, alla fissazione di una realtà in parole poetiche, meno labili della stessa esperienza che le ha catturate. E allarte di Gallione e del suo interprete a momenti riesce la sospensione dellincredulità. Verso la fine, gli accenti amorosi si concentrano sulla presenza del figlio, anche attraverso il ricordo del grave incidente toccato al bambino, e della sua guarigione chera stata vissuta come una «resurrezione». Diversi momenti rievocano ancora la vita del padre, per dare maggior consistenza a una figura (un fantasma, forse) tardi e parzialmente ricomposta. Il passaggio obbligato il protagonista lo compie nel sogno duna visione di morte, sovrastato da una metafora di gelo e dallossessione duna bara pronta a inghiottirlo. A quello stato di premonizione fatale, lattore risponde con toni ancor più sommessi, vocalmente sobri e pregnanti (ottenuti con luso del microfono, peccato). E chiude con laugurio-esortazione al bambino che tiene accanto a sé: «È stato, non sarà più, ma tu ricorda». Un bel monologo, insomma, duna voce convincente, in una rappresentazione che conferma una consuetudine oggi data come necessaria, purtroppo, nel ricorso allone-man show, forma invasiva ed esiziale di sostituzione teatrale.
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