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La perfezione dell'incompiuta Turandot

di Riccardo Cenci
  Turandot
Data di pubblicazione su web 28/10/2013  

 

Dietro l’annoso dibattito fra coloro i quali perseguono l’integrità dell’opera d’arte ad ogni costo, e quindi non concepiscono un’esecuzione tronca dell’incompiuta “Turandot”, a prescindere dalle  diverse versioni del finale, e quelli che, al contrario, non si lasciano atterrire dalla poetica del frammento, ma anzi colgono in essa un elemento precipuo della modernità, si celano problematiche complesse, non sempre indagate a fondo dalla critica. Terminare l’esecuzione con la morte di Liù, come è accaduto al Teatro dell’Opera di Roma, significa non solo seguire il percorso tracciato da Toscanini in occasione della prima del 1926, ma anche sposare un’interpretazione che vede nel sacrificio della fanciulla innocente l’autentica svolta della vicenda, il momento cruciale nel quale l’amore si trasferisce nell’animo algido della principessa, dissolvendo i fantasmi del maleficio avito.

 


Un momento della messinscena. (C) Luciano Romano

 

La retorica del finale, accentuata dalle scelte stilistiche della più nota versione di Franco Alfano, rappresenta un tentativo di risolvere le difficoltà drammaturgiche incontrate da Puccini, certo lodevole ma non imprescindibile. Il regista Roberto De Simone concepisce l’opera come una grande liturgia profana, il cui carattere incompiuto adombra un anelito irrisolto. In quest’ottica si coglie non solo il tormento di un autore alla ricerca di una propria collocazione nel panorama contemporaneo, il quale non si vergognava affatto di scrivere al librettista Adami che: “tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più”, ma anche il dramma di un’intera epoca, in bilico fra nostalgia di una tradizione ormai estinta ed urgenza della modernità. A onor del vero occorre aggiungere che De Simone, tenendo fede alla propria vocazione di compositore, ha elaborato una nuova versione del finale, differente anche dal punto di vista testuale, mai andata in scena per il veto imposto da casa Ricordi. Ma torniamo alla specificità di “Turandot”.

 


Una scena dell'opera. (C) Luciano Romano

 

La scelta del soggetto fiabesco rimanda al tortuoso percorso seguito da Richard Strauss il quale, nella precipua volontà di sfuggire i vincoli dell’epigonismo wagneriano, cercando nel contempo nuove vie per il teatro moderno, si era immerso nelle atmosfere simboliche e favolistiche della “Donna senz’ombra”. La distanza garantita dalla materia fantastica appare come un argine alle angosce contemporanee, mentre la presenza delle maschere di Ping, Pang e Pong rimanda alle alchimie metateatrali di “Arianna a Nasso”. Seguendo un assunto drammaturgico per lui inusitato, Puccini mostra dunque l’ambizione di eludere le convenzioni passatiste, abbracciando in maniera definitiva lo spirito del proprio tempo. Eppure in lui l’adesione alla fiaba resta parziale, i paraventi esotici non occultano del tutto l’urgenza realistica e sentimentale, la sostanza profondamente umana dell’ispirazione. In tutto questo va ricercato il motivo dell’incompiutezza, nella difficoltà incontrata dal compositore ad elaborare una catarsi conclusiva che ai suoi occhi appariva falsa, seppur in linea con il dettato fiabesco. L’allestimento è quello andato in scena al Petruzzelli di Bari, con la regia di Roberto De Simone ripresa per l’occasione da Mariano Bauduin.

 

Uno spettacolo nel solco della tradizione, con la grande scalinata centrale a definire le gerarchie fra i rappresentanti del potere, distanti e irraggiungibili, e la folla che assiste agli eventi. L’idea di abbigliare il coro come l’esercito di terracotta dell’imperatore cinese Qin Shi Huang, benché suggestiva, omologa le masse impoverendo un poco le dinamiche narrative. Belle comunque le scene di Nicola Rubertelli ed i costumi di Odette Nicoletti, radicati nell’iconografia della Cina più arcaica e lontani da qualsiasi esotismo eccessivo. Fulcro dello spettacolo è il finale, con la piccola principessa Lo-u-Ling la quale, finalmente placata dal sacrificio di Liù, sorge dal sepolcro per sciogliere il maleficio, permettendo ai due amanti di unirsi. Una scena particolarmente efficace nel rendere tangibile il disgelo della principessa, dissolvendo ogni retorica in pura poesia. Riguardo alla parte musicale, Pinchas Steinberg offre una direzione di solido mestiere, attentissima agli equilibri fra orchestra e palcoscenico.

 


Simone Del Savio (Ping), Saverio Fiore (Pong) e
Gregory Bonfatti (Pang). (C) Luciano Romano
 

Da sempre terreno di sfida ideale per cantanti nordiche provenienti dal repertorio wagneriano e straussiano, il ruolo di Turandot non appare particolarmente congegnale ad Evelyn Herlitzius. La sua vocalità, solitamente formidabile nei cimenti germanici, risulta a tratti ingolata e faticosa, anche se il temperamento resta quello della grande artista. Sottotono anche il Calaf di Marcello Giordani il quale, rispetto al passato, ha perduto smalto e sicurezza. La voce, pur conservando un certo squillo, appare usurata, la linea di canto è poco duttile, il fraseggio discontinuo. Corretto il Timur di Roberto Tagliavini, apprezzabili le tre maschere, efficacemente caratterizzate da Simone Del Savio (Ping), Saverio Fiore (Pong) e Gregory Bonfatti (Pang). In questo contesto Carmela Remigio (Liù), con una prestazione più che generosa, coglie un successo personale ed una vera ovazione da parte di un teatro gremito in ogni ordine di posti. Sfizioso infine il cameo del veterano Chris Merritt nei panni dell’imperatore Altoum.



 

 



 

Turandot
opera in 3 atti e 5 quadri


cast cast & credits
 
trama trama



 
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