Dietro lannoso dibattito fra coloro i quali perseguono lintegrità dellopera darte ad ogni costo, e quindi non concepiscono unesecuzione tronca dellincompiuta “Turandot”, a prescindere dalle diverse versioni del finale, e quelli che, al contrario, non si lasciano atterrire dalla poetica del frammento, ma anzi colgono in essa un elemento precipuo della modernità, si celano problematiche complesse, non sempre indagate a fondo dalla critica. Terminare lesecuzione con la morte di Liù, come è accaduto al Teatro dellOpera di Roma, significa non solo seguire il percorso tracciato da Toscanini in occasione della prima del 1926, ma anche sposare uninterpretazione che vede nel sacrificio della fanciulla innocente lautentica svolta della vicenda, il momento cruciale nel quale lamore si trasferisce nellanimo algido della principessa, dissolvendo i fantasmi del maleficio avito.
Un momento della messinscena. (C) Luciano Romano
La retorica del finale, accentuata dalle scelte stilistiche della più nota versione di Franco Alfano, rappresenta un tentativo di risolvere le difficoltà drammaturgiche incontrate da Puccini, certo lodevole ma non imprescindibile. Il regista Roberto De Simone concepisce lopera come una grande liturgia profana, il cui carattere incompiuto adombra un anelito irrisolto. In questottica si coglie non solo il tormento di un autore alla ricerca di una propria collocazione nel panorama contemporaneo, il quale non si vergognava affatto di scrivere al librettista Adami che: “tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più”, ma anche il dramma di unintera epoca, in bilico fra nostalgia di una tradizione ormai estinta ed urgenza della modernità. A onor del vero occorre aggiungere che De Simone, tenendo fede alla propria vocazione di compositore, ha elaborato una nuova versione del finale, differente anche dal punto di vista testuale, mai andata in scena per il veto imposto da casa Ricordi. Ma torniamo alla specificità di “Turandot”.
Una scena dell'opera. (C) Luciano Romano
La scelta del soggetto fiabesco rimanda al tortuoso percorso seguito da Richard Strauss il quale, nella precipua volontà di sfuggire i vincoli dellepigonismo wagneriano, cercando nel contempo nuove vie per il teatro moderno, si era immerso nelle atmosfere simboliche e favolistiche della “Donna senzombra”. La distanza garantita dalla materia fantastica appare come un argine alle angosce contemporanee, mentre la presenza delle maschere di Ping, Pang e Pong rimanda alle alchimie metateatrali di “Arianna a Nasso”. Seguendo un assunto drammaturgico per lui inusitato, Puccini mostra dunque lambizione di eludere le convenzioni passatiste, abbracciando in maniera definitiva lo spirito del proprio tempo. Eppure in lui ladesione alla fiaba resta parziale, i paraventi esotici non occultano del tutto lurgenza realistica e sentimentale, la sostanza profondamente umana dellispirazione. In tutto questo va ricercato il motivo dellincompiutezza, nella difficoltà incontrata dal compositore ad elaborare una catarsi conclusiva che ai suoi occhi appariva falsa, seppur in linea con il dettato fiabesco. Lallestimento è quello andato in scena al Petruzzelli di Bari, con la regia di Roberto De Simone ripresa per loccasione da Mariano Bauduin.
Uno spettacolo nel solco della tradizione, con la grande scalinata centrale a definire le gerarchie fra i rappresentanti del potere, distanti e irraggiungibili, e la folla che assiste agli eventi. Lidea di abbigliare il coro come lesercito di terracotta dellimperatore cinese Qin Shi Huang, benché suggestiva, omologa le masse impoverendo un poco le dinamiche narrative. Belle comunque le scene di Nicola Rubertelli ed i costumi di Odette Nicoletti, radicati nelliconografia della Cina più arcaica e lontani da qualsiasi esotismo eccessivo. Fulcro dello spettacolo è il finale, con la piccola principessa Lo-u-Ling la quale, finalmente placata dal sacrificio di Liù, sorge dal sepolcro per sciogliere il maleficio, permettendo ai due amanti di unirsi. Una scena particolarmente efficace nel rendere tangibile il disgelo della principessa, dissolvendo ogni retorica in pura poesia. Riguardo alla parte musicale, Pinchas Steinberg offre una direzione di solido mestiere, attentissima agli equilibri fra orchestra e palcoscenico.
Simone Del Savio (Ping), Saverio Fiore (Pong) e
Gregory Bonfatti (Pang). (C) Luciano Romano
Da sempre terreno di sfida ideale per cantanti nordiche provenienti dal repertorio wagneriano e straussiano, il ruolo di Turandot non appare particolarmente congegnale ad Evelyn Herlitzius. La sua vocalità, solitamente formidabile nei cimenti germanici, risulta a tratti ingolata e faticosa, anche se il temperamento resta quello della grande artista. Sottotono anche il Calaf di Marcello Giordani il quale, rispetto al passato, ha perduto smalto e sicurezza. La voce, pur conservando un certo squillo, appare usurata, la linea di canto è poco duttile, il fraseggio discontinuo. Corretto il Timur di Roberto Tagliavini, apprezzabili le tre maschere, efficacemente caratterizzate da Simone Del Savio (Ping), Saverio Fiore (Pong) e Gregory Bonfatti (Pang). In questo contesto Carmela Remigio (Liù), con una prestazione più che generosa, coglie un successo personale ed una vera ovazione da parte di un teatro gremito in ogni ordine di posti. Sfizioso infine il cameo del veterano Chris Merritt nei panni dellimperatore Altoum.
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