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Intervista a Lino Capolicchio

di Franco Sepe
  Intervista a Lino Capolicchio
Data di pubblicazione su web 04/09/2013  

Lo scorso 21 agosto Lino Capolicchio ha compiuto settant’anni. Il suo esordio come attore di teatro risale al 1964, per il cinema al 1968. Memorabile, fra le tante, la sua interpretazione, accanto a Dominique Sanda, nel film Il giardino dei Finzi-Contini diretto da Vittorio De Sica, vincitore nel 1971 dell’Orso d’oro del cinema di Berlino. Meno di un anno fa gli è stato assegnato il Premio Vittorio De Sica come migliore attore e regista.

con Vittorio De Sica sul set de Il giardino dei Finzi Contini. Premio Oscar 1971 Miglior Film Straniero.
Con Vittorio De Sica sul set de Il giardino dei Finzi Contini
(Premio Oscar 1972 Miglior Film Straniero).

Come e quando è nata l’idea di fare l’attore?

All’età di dodici anni fui folgorato da un testo straordinario come Assassinio nella cattedrale di Eliot. Era la prima volta che andavo a teatro e ne ebbi un’impressione fortissima. Mi dissi che se l’emozione che dava il recitare era quella, allora volevo recitare. In più, proprio in quel periodo, una mia amichetta guardandomi mi disse: “ Lino, ma lo sai che tu hai una faccia da attore?” La guardai trasecolato: “Come da attore?” risposi, e lei insistendo: “Sì, sì, il tuo viso mi fa pensare proprio ad un attore!” Così da quel giorno incominciai a guardarmi allo specchio e a considerare la questione convincendomi che la mia amica avesse ragione. Così cominciai a pettinarmi come un attore allora assai in voga, Tony Curtis, e mi dicevo: “ Se mi pettino come lui, il mio sentirmi attore sarà ancora più evidente”.                   

Quali sono state le tue prime esperienze teatrali?

Sono stato molto fortunato, devo dire, perché ho debuttato con uno dei massimi registi che abbia avuto il teatro a livello non solo italiano o europeo ma direi mondiale, Giorgio Strehler. Valentina Cortese mi aveva visto casualmente recitare alle prove del mio saggio finale all’Accademia d’Arte drammatica “Silvio D’Amico” , dove mi sono diplomato, e mi segnalò a Strehler che mi volle al Piccolo Teatro di Milano dove ho debuttato nelle Baruffe Chiozzotte di Goldoni, con la regia di Strehler appunto. Un’esperienza faticosissima, ma straordinariamente stimolante ed appagante.

con Tino Buazzelli.
Con Tino Buazzelli.

Come è avvenuto il passaggio dal teatro al cinema?

Il passaggio dal teatro al cinema è stato anche qui un po’ casuale. Roberto Faenza, giovane regista anche lui al debutto, cercava il protagonista del suo film di esordio. Ma al primo incontro ero arrivato tutto biondo, ossigenato, i capelli lunghi, reduce dallo spettacolo teatrale Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller con Raf Vallone e Alida Valli. Il giovane Faenza aveva un’idea del suo personaggio esattamente all’opposto, per cui mi scartò. Fu solo per insistenza della segretaria di produzione, che mi aveva visto in televisione ed era stata colpita dal mio talento, che Faenza si convinse a farmi il provino, e così iniziò la mia avventura con il cinema.

Tu hai lavorato, all’inizio degli anni settanta, con due grandi maestri del Neorealismo, Vittorio De Sica e Giuseppe De Santis, oltre ad avere avuto, in quegli stessi anni ruoli da protagonista, per l’appunto, in numerosi film di registi emergenti. Chi di essi, secondo te, ha contribuito maggiormente alla tua evoluzione artistica?

Vittorio De Sica era un maestro assoluto di recitazione. Ma anche De Santis era molto attento alla recitazione e amava molto gli attori. Con Giuseppe De Santis però ho avuto un particolare e lungo rapporto anche al di fuori del lavoro. Lui per me è stato come un padre, che in quegli anni di particolare crescita mi ha guidato nella vita. Probabilmente è stato il padre che avrei voluto.

con Giuseppe De Santis.
Con Giuseppe De Santis.

Tu hai scritto e diretto alcuni film. Quando hai avvertito per la prima volta il bisogno di creare un’opera cinematografica che fosse tutta tua?

All’età di quarant’anni mi sono reso conto che ero in grado di scrivere da solo una sceneggiatura. Sono sempre stato un appassionato cinefilo ed un ottimo fotografo, a detta di tanti miei amici, compreso Vittorio Storaro, e di conseguenza mi affascinava l’idea di poter realizzare una mia sceneggiatura, dirigendola io stesso. Avevo già avuto un’esperienza di regia mettendo in scena al Teatro Giglio di Lucca la Bohème di Giacomo Puccini. Un successo che ha avuto cinque anni di repliche. Tutto ciò mi ha dato il coraggio di preparare il mio primo lungometraggio Pugili, che ha vinto il Premio della Critica Internazionale al Festival di Torino nel 1996. Subito dopo ho scritto la sceneggiatura sull’ultima figlia di Alessandro Manzoni. E così nel 2000 ho potuto realizzare il film Il diario di Matilde Manzoni. Anche in questo caso il plauso della critica è stato unanime. Per la sensibilità ed il gusto della messa in scena qualche critico mi ha voluto paragonare a Luchino Visconti.

Quali sono per un attore con alle spalle quasi mezzo secolo di lavoro le regole principali per dirigere degli attori non professionisti o non ancora del tutto maturi?

Devo innanzitutto dire che per alcuni anni ho avuto l’opportunità di insegnare recitazione al Centro sperimentale di cinematografia. Questo mi ha permesso di maturare un’esperienza nei confronti di giovani attori alle prime armi. Quello che ho capito è che non ci sono regole, ogni attore va trattato a parte perché ognuno ha la sua sensibilità e la sua psicologia. Ad esempio, quando Francesca Neri ha fatto il provino di ammissione al Centro, intuendo una sua grande sensibilità nascosta, ho scavato a lungo per riuscire ad ottenere il massimo della resa e tirar fuori la sua bravura. Un’altra cosa molto importante è mettere gli attori a proprio agio, farli sentire davanti alla cinepresa come in un ambiente protetto.

Quali sono state nella tua lunga carriera teatrale e cinematografica le occasioni mancate che oggi ancora rimpiangi?

Non essere riuscito mai a fare Amleto in teatro, e per quanto riguarda il cinema ero stato chiamato da Fellini per il film Satyricon, ma alla fine il Maestro decise di prendere un attore sconosciuto. Per me è stato un grande dolore. Bertolucci mi voleva per Strategia del ragno, ma le date non collimavano con altri miei impegni cinematografici. Ed infine, altro dispiacere, è non aver potuto interpretare Profondo Rosso di Dario Argento a causa di un grave incidente automobilistico.

Quali progetti hai per il futuro più immediato?

Da un po’ di tempo ho scritto una sceneggiatura che mi è particolarmente cara e che vorrei realizzare quanto prima. Si intitola Enfant prodige e racconta un episodio particolare, quasi sconosciuto, del giovanissimo Pietro Mascagni.

Che cosa è migliorato o peggiorato, secondo te, nella scena teatrale e cinematografica italiana degli ultimi decenni?

Secondo me a poco a poco si è venuta ad insinuare un’idea mercantile di questa professione non più legata a un’idea di cultura ma esattamente come avviene per un qualsiasi prodotto sottoposto alle leggi del mercato. L’opera d’arte non può essere considerata un prodotto qualsiasi, ma trattandola come tale si genera un senso di confusione, smarrimento e frustrazione. I grandi autori classici tendono ad essere sostituiti in nome della modernità e del successo da mediocri e insignificanti scrittori. La qualità viene sostituita da un’idea di quantità e questo porta inevitabilmente alla paralisi di ogni possibilità espressiva e creativa.

con Dominique Sanda in Il giardino dei Finzi Contini.
Con Dominique Sanda ne Il giardino dei Finzi Contini.

Come vedi in Italia il rapporto tra politica e cultura?

Purtroppo la cultura in Italia ha sempre avuto rispetto alla politica un carattere subalterno, e perciò è sempre stata trattata come qualcosa di cui ci si dovesse vergognare, e non invece come qualcosa che valeva assolutamente la pena di valorizzare, visto che agli occhi del mondo siamo un paese unico per quanto riguarda l’arte in generale. Bisognerebbe rovesciare la nostra politica culturale e rendersi conto che finanziare la cultura è un investimento di sicuro successo che valorizzerebbe oltre all’immagine dell’Italia nel mondo, anche la sua crescita sul piano economico e commerciale.

Quali sarebbero, secondo te, le misure da adottare per una politica culturale capace di incentivare le nuove generazioni di artisti?

Intanto bisognerebbe portare nell’insegnamento scolastico oltre a materie come Storia dell’arte e Storia della musica, che in parte già ci sono, anche Storia del teatro e Storia del cinema. Tali materie sono la base indispensabile per qualsiasi progetto di carattere artistico. Naturalmente il talento è qualcosa che non si insegna e non si impara a scuola, ma queste materie servono a predisporre e a indirizzare almeno sul piano estetico qualsiasi vocazione. I giovani devono capire che aldilà del talento serve una grande applicazione, volontà e dedizione senza le quali questo lavoro sarebbe un’impresa impensabile e impossibile.

 



foto: Archivio privato Lino Capolicchio


 
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