Dopo essere stato presentato in patria, arriva alla Mostra del Cinema di Venezia (in deroga alla regola che vorrebbe proiettate in concorso solo opere in prima mondiale assoluta) Kaze Tachinu (Salza il vento), lultimo film di Hayao Miyazaki e questa volta laggettivo “ultimo” va letto non solo in senso cronologico, ma anche assoluto. È Koji Hoshimo, il presidente dello Studio Ghibli, a dare questo annuncio durante la conferenza stampa del film alla rassegna veneziana e per quanto la notizia possa sembrare clamorosa, non credo che abbia meravigliato più di tanto coloro che hanno già visto il film.
In effetti non ci sono dubbi di trovarsi davanti a un film-testamento, a partire dal titolo che viene preso in prestito dal primo verso dellultima strofa del poemetto filosofico Il cimitero marino di Paul Valery: «Salza il vento… Bisogna cercare di vivere!». Per questo suo addio, Miyazaki abbandona lesplicitazione del magico e del fantastico per seguire la linea storico-realistica inaugurata dal figlio Goro con il bellissimo La collina dei papaveri, e ci racconta il sogno di Jiro Horihoshi, lingegnere innamorato del volo, che progettò i tristemente famosi cacciabombardieri Mitsubishi A6M Zero usati dallaviazione giapponese nella seconda guerra mondiale. Ed è proprio il potere fantasmagorico del sogno e della passione il protagonista di questa storia animata. Nel suo lunghissimo volo, iniziato più di quarantanni fa, la fantasia di Miyazaki plana dolcemente sulle speranze di un ragazzo che voleva volare e sui consigli del suo mentore virtuale: il progettista italiano Giovanni Battista Caproni.
Le matite dei disegnatori dello Studio Ghibli ricostruiscono con perizia filologica la Tokio degli anni 20, il devastante terremoto del 1923 e lenorme incendio che ne scaturì. Eppure, la vivacità e la nitidezza dei loro colori sono ben lontane dal ricercare una verità naturalistica, il loro tratto riesce ad unire la semplicità e lemozione di una storia vera, dove trova spazio anche un accenno pucciniano al melodramma (il protagonista si innamora di una ragazza malata di tubercolosi).
Le sterili e strumentali polemiche che hanno accompagnato il film alla sua uscita in patria (troppo nazionalista, troppo disfattista, troppo militarista, troppo pacifista…) svaniscono alla visione di questa delicata riflessione sulla creatività e sullarte: Jiro affida i suoi aerei veloci e sicuri al cielo, saranno gli uomini a farne “uccelli migratori senza ritorno”.
Miyazaki ha sempre amato far volare i suoi personaggi, dare loro la leggerezza e la magia che sfida le leggi fisiche, quindi non stupisce che per il suo testamento artistico abbia scelto di raccontare la storia di un ragazzo che desidera far volare gli altri, ritagliando al personaggio del vecchio ingegnere Caproni il ruolo del suo alter ego, che incita il giovane Jiro a sbrigarsi nel perseguire i suoi obiettivi perché «la creatività dura solo dieci anni». Insomma: «Ragazzi, io ho fatto il mio tempo e adesso tocca a voi». Oppure, come dice Paul Valery: «Breve è il dì! La presenza mia è porosa,/E la santa impazienza, anchessa muore!». Goodbye Mr. Hayao e grazie.
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