“Arrivarono
come una sfilata di carri da fiera, e sotto il sole del mattino
salirono su per la collina fra i campi di ginestre, con il camioncino
che traballava e beccheggiava lungo i solchi del sentiero mentre i
musicisti, seduti sulle loro sedie sopra il cassone, vacillavano
all'unisono e accordavano gli strumenti”. Così inizia Child
of God
di Cormac
McCarthy
e così inizia anche il film che James
Franco
ha, non liberamente, tratto da quel romanzo. La nuova e la vecchia
Hollywood (Billy
Bob Thornton,
i Cohen,
John
Hillcoat,
ma anche Ridley
Scott e
Tommy
Lee Jones)
stanno provando una vera fascinazione per le trame di McCarthy, ma
non sempre appaiono altrettanto attente alle difficoltà di portarle
sul grande schermo e questa versione di Child
of God
ne rappresenta un esempio molto significativo.
La
storia è piuttosto semplice e mostra il percorso dellopaca follia
di Lester Ballard (Scott
Haze)
un giovane montanaro del Tennessee alla fine degli anni 50 che,
espropriato ed emarginato dalla sua comunità, regredisce ad uno
stato ferino fino a diventare un serial
killer;
un percorso allinterno del quale vengono toccate tematiche molto
difficili da maneggiare al cinema come la necrofilia. Franco sembra
voler risolvere il problema affidandosi ciecamente al racconto dello
scrittore di Providence, del quale ci legge, in voce off, anche
numerosi stralci, ma questa sua devozione resta su un livello
superficialmente narrativo, che finisce per trascurarne le
particolarità stilistiche di una scrittura fatta di forti contrasti
e di una storia che avanza per brevi episodi, se non addirittura
istantanee, che emergono allinterno di ellissi temporali
indefinite. Tutto questo nel film viene perso, Franco concentra i
suoi sforzi nel restituire un ordine formale alla vicenda di Lester
Ballard, dandogli anche uno sviluppo narrativo coerente che elimina
le particolari (e cinematografiche) ellissi del romanzo,
riconfezionando il tutto in una veste country
accettabile per il pubblico e, soprattutto, per la censura.
Nonostante
un ottimo incipit, il peccato originale di Child
of God
non tarda, infatti, a manifestarsi e si tratta proprio di questa sua
evidente convenzionalità nella scelta delle scene e delle
inquadrature, che lo rende un film simile a molti altri film
indipendenti americani, ben recitati, che si possono vedere nei vari
festival in giro per il mondo, in cui, inevitabilmente, la macchina a
mano si agita convulsamente insieme al personaggio. In questo
contesto Scott Haze si dimostra un attore di sicuro avvenire: in
scena dallinizio alla fine del film restituisce un Ballard
credibile ed efficace, anche se a volte sembra mal sopportare la
protesi dentaria (troppo bianca e pulita in verità) che è costretto
a portare per rendere più bestiale la sua espressione.
“Per
metà Un
tranquillo weekend di paura
e per metà Charlot” così James Franco ha ottimisticamente
definito il suo film e, dismessi i panni dello spacciatore di Spring
Breakers,
si ripresenta a Venezia nelle vesti di bravo ragazzo e fin troppo
serio regista, al quale, per adesso, manca quel coraggio e quella
vena di follia che invece dimostra di avere come attore. E se
provasse a chiedere ad Harmony
Korine?
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