In un grigio quartiere residenziale nei pressi del centro di Atene, vive una ridente famiglia borghese come tante. La loro perfetta routine viene spezzata dal suicidio di Angeliki (Chloe Bolota), la figlia che il giorno del suo undicesimo compleanno, con un sereno sorriso sulle labbra, si toglie la vita gettandosi dal balcone. Distrutti, senza risposte sulle ragioni di un gesto così drammatico, i familiari anziché abbandonarsi al dolore decidono di rimuoverlo, insieme ad ogni traccia della vita di Angeliki. Ad insistere è soprattutto il padre (Themis Panou), un uomo gentile ma fermo. Poco a poco attraverso la narrazione, che procede con una lentezza estenuante e opprimente come la piatta esistenza dei protagonisti, affiorano impercettibili indizi dellorrore che si nasconde sotto lidilliaco quadretto familiare.
Miss Violence procede infatti a fatica per buona parte del film, ma lo sforzo compiuto per seguirne lo svolgimento si rivela proficuo: quando la violenza evocata dal titolo emerge in modo esplicito, ogni elemento trova una sua giustificazione nella visione dinsieme. La regia di Alexandros Avranas è minimalista: lontana da ogni esibizionismo della macchina da presa, punta piuttosto sul taglio delle inquadrature, per lo più fisse e frontali, che esaltano laspetto claustrofobico degli ambienti della casa allinterno della quale è ambientata la maggior parte del film. Ricorrono, in certe scene di dialogo, primi piani dei personaggi con sguardo in macchina che, pur giustificati dal campo-controcampo, non possono fare a meno di interrogare anche il pubblico, suggerendogli implicitamente che cè ben altro dietro limmacolata esistenza della famiglia.
Avranas presta particolare attenzione alluso del colore, délavé e ingrigito, artefice dellatmosfera cupa che vena lapparente serenità fin dallinizio. La coloristica definisce inoltre unambientazione paradossale: allinizio del film la sensazione è che sia ambientato negli anni ‘60 anziché nel 2013, creando un ulteriore elemento di incertezza ed inquietudine nel pubblico. Lunghi silenzi, dialoghi brevi e poco chiari, caricano il film di impalpabile tensione, fino alla rivelazione dellorrore, in un crescendo che svela prostituzione, pedofilia, incesto. Apatici, i personaggi non si abbandonano mai a reazioni eclatanti: le loro emozioni soffocate sono affidate alla recitazione straniata degli interpreti, maschere impassibili che assurgono al ruolo di simbolo delle ingiustizie subite. Splendido il finale, che nella soluzione apparentemente positiva e liberatoria, si vena ancora una volta di negatività. Lesclamazione della madre (Reni Pittaki) - almeno così la chiamano, nel confuso sistema di parentele del film - nuovo capofamiglia, è infatti ambigua: «chiudete a chiave la porta!» può voler indicare un gesto di protezione verso lesterno, ma anche il passaggio del testimone nella conduzione del perverso menage familiare, che rimarrebbe dunque immutato. Un ultimo brillante colpo di scena, nello stile inquietante e trattenuto del film.
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