Basato sul libro di Martin Sixsmith The Lost Child of Philomena Lee (2009), a sua volta tratto da una storia vera, il film racconta le vicende di Philomena Lee, una donna irlandese che, rimasta incinta in età adolescenziale, nel 1952 venne rinchiusa nel convento di Roscrea, dove - assistita dalle suore - diede alla luce il figlio Anthony, poi sottrattole e dato in adozione dalle stesse suore. Passati cinquantanni, la donna si rimette sulle tracce del figlio, affidando la propria storia al giornalista Martin Sixsmith: un difficile percorso che tra delusioni e piacevoli sorprese, la porterà alla scoperta della nuova identità di Anthony.
Il tema era già stato affrontato da Peter Mullan nel 2002 con The Magdalene Sisters, ma qui Stephen Frears opta per una strategia di racconto allopposto dellangoscioso ritratto di Mullan. Pur rispettando il pathos che inevitabilmente porta con sé una storia di vita così drammatica e coinvolgente, Stephen Frears sceglie infatti un taglio del racconto che vira decisamente verso la commedia brillante, carica di ironia non solo da parte del cinico Sixsmith (Steve Coogan, noto comico britannico cui si deve gran parte della comicità nel film), ma anche da parte della protagonista che, nella magnifica interpretazione di Judy Dench, è un mix irresistibile di umorismo e ingenuità. Nelle intenzioni registiche e degli interpreti il senso e il valore di unoperazione di questo tipo sta nel non giudicare unepoca con uno sguardo retrospettivo limitato dai pregiudizi della contemporaneità, senza tuttavia calarsi pedissequamente nella morale cattolica e naïf di Philomena. Spirito critico ed empatia trovano la giusta misura attraverso la commedia, garbata e dissacrante al punto giusto. La stessa Dench ha dichiarato che in realtà molto di questo accattivante miscuglio di ironia e ingenuità fa parte già della vera Philomena Lee, incontrata durante la preparazione del film.
Oltre alla vicenda personale realmente accaduta alla donna, il film è senza dubbio anche una riflessione sulla religione e la fede, a partire dalla sorprendente costatazione che Philomena (quella sullo schermo, ma soprattutto quella reale) nonostante le profonde ingiustizie subite, conserva ancora unincrollabile fede.
Nella regia spiccano alcune pregevoli soluzioni come linquadratura che apre la sequenza del primo incontro tra Martin e Philomena: sul vetro del locale dal quale il giornalista sta osservando, vediamo contemporaneamente il riflesso della protagonista accompagnata dalla figlia, in una sorta di split screen definito dalla variazione di fuoco allinterno del quadro. Notevole la fluidità nel passaggio continuo tra la fotografia più limpida - che ritrae la contemporaneità - e quella più sgranata, riservata ai ricordi di Philomena e ai filmati di famiglia del piccolo Anthony con i genitori adottivi. Stralci di queste registrazioni in particolare vengono mostrati a più riprese come fossero una soggettiva interna di Philomena, molto prima che incontri la persona che glieli mostrerà, innestando così nella narrazione un flashforward che assume il tempo dei ricordi.
Nel complesso un film onesto e ironico, capace di mantenere un buon equilibrio fra impegno e leggerezza, tra il riso e il pianto.
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