Nel segno di un rinnovato interesse verso il comico,
almeno per la scelta delle opere inaugurali, ledizione 2013 del festival della
Valle dItria di Martina Franca recupera, in prima assoluta in tempi moderni e
in forma scenica, una creazione tarda di Leonardo
Leo, la commedia pastorale in tre atti Lambizione
delusa, libretto di Domenico
Canicà, rappresentata per la prima volta al Teatro Nuovo sopra Toledo (al
Montecalvario) di Napoli nel 1742, ma composta due anni prima, quando il
musicista pugliese era ancora in predicato di diventare primo maestro al
Conservatorio della Pietà dei Turchini. La genesi del libretto è particolarmente complessa e
interessante, innestandosi in quel filone di opere italiane settecentesche - in
particolare, meridionali - che pongono in primo piano gli ultimi, i poveri, i
semplici, ma (ovviamente) con una lettura ‘dallesterno, cioè colta e délite,
appena stemperata da più recenti fruizioni del teatro comico da parte di un
emergente ceto borghese. In La
Madama Ciana e La Finta cameriera, entrambe
del decennio precedente e con musica di Gaetano
Latilla, si possono ravvisare gli antesignani più diretti alla storia
agreste de Lambizione,
in cui proprio le attese di ascesa sociale di contadini, camerieri e servitori
sono ridicolizzate a uso e consumo di coloro i quali, invece, il potere lo
tengono ben saldo nelle proprie mani. Certo, le illuministiche preoccupazioni
verso una presa di coscienza più ‘politica di ceti diversi da quelli dominanti
sono, nel 1740, ancora di la da venire: per ora può essere sufficiente
disattivarne le aspirazioni attraverso meccanismi culturali che, mettendoli
alla berlina, ne svuotino la potenziale carica eversiva e divertano signori e
ricchi commercianti della ritrovata corona napoletana (il viceregno cessa nel
1734). In questo contesto, Leo e Canicà imbastiscono unopera
abbastanza estesa, tre atti per più di tre ore di musica, in cui la comicità
nasce, come scrive Daniela
Rota nel libro di sala, «dal
contrasto tra ciò che i personaggi sono realmente (caprai o contadini), ciò che fingono di
essere (Baroni o Podestà) e ciò che ambiscono a
diventare (Signorini e Madame)». Si tratta di un meccanismo che poi si trasferirà, più di
un secolo dopo, anche nel teatro, tra gli altri, di un capocomico e
commediografo come Eduardo
Scarpetta, la cui notissima Miseria
e Nobiltà (indimenticabili,
per noi mediatizzati, le due versioni televisive del figlio Eduardo De Filippo e quella cinematografica di Totò) deriva in modo diretto
dai plot delle opere musicate da Latilla e Leo. La presa in giro dei due fratelli contadini Lupino e
Cintia, ereditieri di una improvvisa fortuna e subito tendenti a modi e
atteggiamenti ‘da signori, procede, nel libretto, attraverso linterazione con
una serie di altri personaggi, tutti però estranei al ceto nobiliare, in primis grazie al corto circuito provocato
dallutilizzo di una lingua che costituisce una sorta di miscuglio
sgrammaticato tra campano settecentesco, italiano, francese, tedesco e
latinismi, adattati alla bisogna e al livello culturale dei parlanti; in
secondo luogo, mediante la costruzione di una serie di scene (in totale sono
42) in cui la comicità è provocata dalla totale alterità dei modi di una vita
da ricchi signori (quale si svolgeva nella Napoli della prima metà del Settecento),
in rapporto allalterata percezione che nel contado se ne aveva. I personaggi cui si accennava sono un capraio, un
fattore, una cameriera; questa, dal nome Delfina, è lunica che conosca gli usi
cittadini e per questo viene ingaggiata dai due ex-contadini, allo scopo di
‘educarli alla vita e alle maniere dei ricchi. A movimentare lazione, oltre allironia pervasiva sulle
insulse ambizioni dei protagonisti principali, si ritrovano le immancabili
schermaglie amorose che variamente si intrecciano e si incrociano fra i
personaggi. A fronte di un plot da commedia agreste e molto
piacevole, abbiamo davanti una partitura davvero bellissima, ricca di melodie
meravigliose e originali, cui Leo affianca un accompagnamento in contrappunto,
più che una armonizzazione, in cui riluce la grande perizia che il maestro
pugliese aveva da tempo acquisito. La musica, a ben guardare, non procede
sempre per arie movimentate e allegre, come un libretto così congeniato
lascerebbe supporre, ma lascia invece ampi spazi a quellelemento che in tempi
passati sarebbe stato definito patetico, cioè a espressioni musicali più
dispiegate e distese, costruite spesso in tonalità minore, correlate a momenti,
sicuramente meditativi, in cui il personaggio sente il bisogno di mettere a
parte il pubblico delle proprie emozioni più segrete e riservate. Questo è
evidente soprattutto per alcuni personaggi, come i contralti Silvio e Foresto,
per i quali la partitura prevede esclusivamente ruoli eroico-sentimentali,
mentre per i due protagonisti principali sono previste in egual modo arie
delluno e dellaltro tenore. Ciò non toglie che si possa godere di molti momenti
davvero esilaranti, ad esempio nei dialoghi che Cintia e Lupino intrattengono
con Delfina, spesso spazientita dalla loro ignoranza, e ancor meglio quando
interviene Ciaccone, il pastore innamorato della cameriera, al quale Canicà
riserva momenti davvero esilaranti, soprattutto quando cerca di ‘parlar
cittadino, nei finti panni – di volta in volta – di un Barone e di un Podestà,
sempre sollecitato al travestimento dai fini amorosi di Silvio, pastore gentile
fidanzato storico di Cintia. Lallestimento della regista Caterina Panti Liberovici, con
le scene di Sergio Mariotti e i costumi di Caterina Botticelli, è stato un
po compresso dalla collocazione nel pur splendido chiostro della chiesa
barocca di San Domenico. Sebbene collocato su due livelli con un magnifico
balcone a ringhiera al primo piano, esso consentiva solo una lunga e sottile
striscia calpestabile, con qualche problema di entrata e uscita di quinta. La
scelta di astrarre completamente le scene dallambientazione depoca
originaria, per collocarla in un metafisico spazio allegorico, con molti
elementi scenici simbolici (palloncini che decollano, scale inutilizzate, la
pantomima della pantera interpretata da uno dei cantanti, una ‘batmaniana
ombra di pipistrello che si proietta in scena), pur rispettabile e coerente,
non sempre ha giovato allazione e ai sentimenti espressi nel libretto, allontanando
un po lattenzione dalla trama della storia. Per fortuna ci pensano i calambours linguistici a riportare tutti con i
piedi per terra: quando Ciaccone declama alla sua bella Delfina «Si la tua fordimabile bellezza/Ha vottato il mio
core/Dento dun Chiavicone di dorcezza» (atto II, scena V), lilarità diventa
incontenibile e la concentrazione ritorna subito, complice anche, proprio in
questa scena, il sensualissimo spogliarello di Filomena Diodati, una Delfina
dalla voce sopranile particolarmente bella e dalla “presenza” davvero molto
sexy (rimarchevole, in tal senso, anche alla fine del III atto, dove canta
benissimo «Sempe, chio miro» e in cui appare con un bellissimo vestito di raso
nero e il cappello ‘sulle 23). A suo favore hanno sicuramente giocato le sue
pregresse esperienze con la più importante orchestra barocca del Meridione, I
Turchini di Antonio Florio. Anche Michela
Antenucci (Cintia) mostra
doti vocali eccellenti, sia nelle molte arie in ‘a solo (e con ‘da capo) che
nellunico duetto dellopera, lo straordinariamente bello «Per te mi sento in
petto/Cara del mio dolore» (atto III, scena XIV), in coppia con la bravissima Federica Carnevale nel ruolo en travesti di Silvio.
Anche le altre voci femminili sono apparse molto
interessanti e timbricamente belle (Candida Guida come Foresto, Alessia Martino come Laurina), tenendo conto che tutti
i cantanti sono giovani allievi dell'Accademia del Belcanto Rodolfo Celletti', costola
della Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca. Un po meno interessanti
erano le voci maschili, comunque corrette: Gianpiero
Cicino (Ciaccone, un ruolo
interessantissimo ma molto difficile da sostenere, dal punto di vista del
canto) e Riccardo Gagliardi (Lupino).
LOrchestra ICO della Magna Grecia di Taranto, benché abbia
valenti strumentisti, non è compagine barocca e non suona strumenti depoca,
come invece è ormai prassi consolidata per questi repertori. Qui cerca, con
gesti più adeguati e ‘corti (esempio: limpugnatura dellarco più arretrata),
di ottenere un suono coerente, grazie anche alla guida del direttore e maestro
al cembalo Antonio Greco,
con effetti di un certo gusto.
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