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Intervista a Romeo Castellucci

di Ilaria Pellanda
  Intervista a Romeo Castellucci
Data di pubblicazione su web 28/08/2013  

Il Leone d’oro alla carriera del 42. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia è stato consegnato lo scorso 2 agosto a Romeo Castellucci, regista e deus ex machina della Socìetas Raffaello Sanzio e già direttore dell’innovativa edizione della stessa Biennale nel 2005. In trent’anni di attività, in Italia ed all’estero soprattutto, Castellucci non si è mai girato a considerare il lavoro fatto- come ha detto lui stesso durante la cerimonia di premiazione- mescolando teatro, musica ed arti plastiche secondo un nuovo linguaggio scenico.

Natura e origine della mente è il risultato del laboratorio Il significato di, condotto durante lo svolgimento del Festival. Questa performance può essere intesa come preludio a una nuova fase di lavoro?

In realtà lo spettacolo resterà un unicum, in quanto l’azione rimane ineluttabilmente legata alla circostanza ed alla singolarità del luogo dove si è svolto (le Tese dei Soppalchi, nel cuore dell’Arsenale, ndr.). A rimanere come probabile campo di indagine futura sarà invece la tensione, molto potente, verso le strategie di uscita: l’esito del laboratorio era tutto incentrato sull’uscire e sul come essere in grado di farlo. Il momento fondamentale della performance è stato proprio quello che ha visto gli attori venire ‘assorbiti’ dal buco nero intagliato in una parete bianca.

A cosa allude il titolo dello spettacolo?

Al secondo libro dell’Etica di Spinoza, un titolo che ho scelto innanzitutto per una ragione eufonica. L’allusione alla mente presa in trappola rimanda al corpo in pericolo; e per tutta la durata dello spettacolo l’attrice Silvia Costa, grazie a un’imbragatura, pare reggersi al soffitto con la forza di un solo dito. E’ figura sospesa in tutti i sensi, riassume in sé fragilità e violenza compressa: non ci è dato sapere quello che le capiterà, perché non sappiamo fino a quando la forza del suo dito potrà reggerla.

Il rapporto con l’immagine ricorre spesso nel tuo linguaggio.

L’immagine è scontornata rispetto alla nostra esperienza, proprio questa è la ragione del mio interesse. Se potessimo afferrarla, cesserebbe di esistere. Non c’è nulla di psicologico in un’immagine: bisogna essere in grado di riconoscerla e cercare in qualche modo di afferrarla, di evocarla, forse.

Gli animali – un cane era presente anche nella performance veneziana – sono una costante nel teatro della Raffaello Sanzio.

È vero, ho lavorato spesso con cani, cavalli e scimmie, e si potrebbe forse realizzare una storia della Socìetas proprio attraverso gli animali. Ma la loro presenza non è il risultato di una volontà, di uno stile. Il loro esserci diventa quasi una forma d’ombra. L’animale è tutto-corpo, non c’è discorso al di là della sua figura. E se diverse sono le spinte che mi portano ad accogliere gli animali sulle scene, forse semplicemente mi piace la loro compagnia.

Anche i bambini sono presenze forti nelle tue regie. Penso ad Auschwitz, il secondo atto della Genesi ed a Sul concetto di volto nel Figlio di Dio.

Anche i bambini sono un anticorpo del teatro: non sono finzione, sono ancora fuori dal linguaggio. Non per questo però si trovano in una posizione di debolezza. Al contrario sono figure violente, proprio perché piene di grazia, perché vittime. Quando in scena c’è un bambino, il riferimento immediato è quello alla strage degli innocenti: si direbbe che debba venire ucciso da un momento all’altro.

Natura e origine della mente ha preso spunto da Nathaniel Hawthorne e Friedrich Hölderlin, che hanno ispirato altre regie recenti, dal Velo nero del pastore, a Hyperion, a The Four Season Restaurant.

In questi nostri tempi così saturi di immagini, Hawthorne ed Hölderlin ci mostrano la via per sottrarci. Ne Il velo nero del pastore, Hawthorne offre del pastore che si presenta in chiesa per il sermone col fazzoletto nero calato sul volto, un racconto di potenza inaudita, insuperabile per icasticità e violenza di immagini. Per quanto riguarda Hölderlin, durante il laboratorio in Biennale lo abbiamo ‘usato’ come farmaco: tutti i giorni qualcuno dei ragazzi lo recitava per dieci minuti. Hölderlin ha concepito la poesia come azione in sé, ricerca esasperata della bellezza: l’inattualità della sua scrittura è estremamente contemporanea.

Che rapporto hai con la parola scritta?

Un rapporto esplosivo in senso letterale: è qualcosa che può scoppiare fra le mani, che può amputare. Si tratta di una relazione complicata ed inevitabile. Le parole hanno un’intensità che ti inchioda, le parole ci agiscono. Ed è sempre presente una relazione molto forte con l’immagine.

Dopo aver studiato all’Accademia delle Belle Arti, ti sei dedicato al teatro. Una scelta?

Quando ero ragazzino ho avuto occasione di assistere ad alcune prove di Carmelo Bene a Cesena, mia città natale. Seguivo il lavoro senza capire assolutamente niente, subendo l’enorme fascino e la soggezione che questa persona mi incuteva. Il teatro in sé mi faceva paura. Crescendo, ho intrapreso gli studi all’Accademia di Bologna. Alla fine degli anni Settanta la città era viva dal punto di vista artistico, anche grazie all’attività di Francesca Alinovi, giovane critica illuminata davvero straordinaria, che nel 1983 venne assassinata. Con Francesca avevamo cominciato a lavorare ad alcune performance, che con il trascorrere del tempo hanno preso sempre più la direzione di vere e proprie rappresentazioni teatrali. Non c’è stato un calcolo, è capitato.

La storia dell’arte è per te una fonte di ispirazione. E la realtà quotidiana, la difficoltà del vivere, il dolore?

Sono tutti modi di contemplare l’esistente: da una parte la bellezza che può esprimere dolore, come avviene nella storia dell’arte; dall’altra il dolore che può esprimere bellezza, come con la storia delle persone. Il pericolo della storia dell’arte è il senso di consolazione che ne possiamo ricavare. La storia dell’arte ci insegna la continua metamorfosi, il flusso millenario incessante.

E la drammaturgia contemporanea?

La drammaturgia contemporanea non mi può interessare perché le persone che hanno scritto quei testi sono afflitte dalla mia stessa condizione. Sarebbe pleonastico, una somma algebrica dello stesso segno che non potrebbe funzionare. Sono invece molto legato alla tragedia greca, forma perfetta e geometrica, che offre infinite possibilità d’interpretazione.

Artaud parlava di forsennare il supporto, di scuoterlo…

‘Forsennare il supporto’ significa scuotere la casa del teatro da vuota. Artaud voleva renderlo doloroso in sé, perché il palcoscenico -tanto più se è vuoto- può esprimere una potenza tellurica inaudita. Ma bisogna essere in grado di rendersi conto di questa pluralità di potenze che animano e  che possiedono il teatro: il suo essere e rimanere supporto senza contenuto.

Il ruolo dello spettatore è sempre più centrale nella tua ricerca.

L’esperienza dello spettatore è l’unica cosa che mi interessa. Io stesso cerco di assumere il punto di vista di chi assiste alla rappresentazione. Lo spettatore è l’ultima dimensione possibile in un’epoca in cui l’essere spettatore è diventata una condizione esistenziale. Il teatro, o qualsiasi esperienza estetica che si possa definire tale, può divenire una interruzione di questo spettacolo comunicativo continuo. Il teatro è vedersi vedere. Lo spettatore non è qualcuno da educare e l’artista non è un sacerdote che vede la verità. Ma poi, quale verità? L’artista non è colui che punta il dito sui cattivi. L’artista è cattivo. Il teatro è cattivo.

Che spazio hanno le prove e come si svolge il lavoro con gli attori?

Non ho mai lavorato sull’improvvisazione e le prove – generalmente molto brevi – divengono più che altro un momento per verificare che quell’idea, quell’immagine che si era deciso di fissare, funzioni o meno. È un equilibrio tra il calcolo ed il caso. E proprio al caso si deve sempre lasciare la porta aperta ed accettare il disordine, comprenderlo. Per farlo, naturalmente, bisogna avere una grande disciplina. Cosa sia la disciplina, poi, è un altro problema di non facile soluzione…

 

Natura ed origine della mente (foto Akiko Miyake)
Natura ed origine della mente (foto di Akiko Miyake)



Il regista Romeo Castellucci (foto You Wei Cheng)
Il regista Romeo Castellucci (foto di You Wei Cheng)



In alto:

Sul concetto di volto nel Figlio di Dio (foto di Christophe Raynaud de Lage / Festival d’Avignon)




 
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