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Sofista bigamo

di Paolo Patrizi
  Der geduldige Socrates
Data di pubblicazione su web 09/07/2013  

Chissà se un umorista come Achille Campanile, nella cui Vita degli uomini illustri (1975) troviamo uno spassosissimo ritratto di Socrate, conosceva Der geduldige Socrates di Telemann o, almeno, il libretto di Nicolò Minato La pazienza di Socrate con due mogli: un piccolo classico, quest’ultimo, dell’opera buffa tardoseicentesca, che, musicato inizialmente da Antonio Draghi, avrebbe poi conosciuto altre intonazioni (compresa una di Caldara) per approdare infine, nel 1721, alla splendida versione approntata dal compositore tedesco, nella traduzione – in realtà un capillare adattamento – di Johann Ulrich König.

Un momento dello spettacolo. Foto di Gert Kiermeyer.
Foto di Gert Kiermeyer.

Paradossale ed esilarante proprio come certi fulminanti dialoghi di Campanile, il libretto parte dall’irreale presupposto di una legge ateniese che, per aumentare l’intensità demografica, impone la bigamia agli uomini ammogliati: ecco dunque un Socrate davvero «geduldig» (paziente) che deve vedersela non solo con Santippe, la cui megeragine è proverbiale, ma pure con una seconda consorte – Amitta – forse meno brutta e petulante, ma altrettanto litigiosa e bisbetica; ed ecco, a sostenere il versante patetico-amoroso della commedia, il principe Melito che – avendo già una promessa sposa – non sa decidersi per la scelta della seconda moglie, poiché le principesse Edronica e Rodisette sono parimenti belle e innamorate. Il lieto fine, comunque, è garantito: l’unico che non riuscirà a uscire da tale vicolo cieco sarà proprio Socrate, ma a lui resta la consolazione della filosofia.

Un momento dello spettacolo. Foto di Gert Kiermeyer.
Foto di Gert Kiermeyer.

Telemann trasferisce nell’opera buffa – genere cui ancora si riservava minor dignità estetica rispetto al melodramma serio – tutta la sua sapienza di compositore strumentale e, all’inizio dell’ultimo atto, innesta anche una pagina corale programmaticamente “alta” come quella (assente nel libretto italiano originale) dell’Adonisfest. Ne sortisce un lavoro di proporzioni monumentali – cinquantacinque numeri – che questa messinscena approntata a Halle ha inevitabilmente sforbiciato, riducendo lo spettacolo alla ragionevole durata di tre ore, senza però snaturarne la fisionomia e squilibrare il sapiente gioco di pesi e contrappesi tra registro farsesco e registro sentimentale. Il regista Axel Köhler e il suo drammaturgo André Meyer preferiscono, in primo luogo, sacrificare in blocco un personaggio e, con esso, una delle tante diramazioni che si diffondono dal nucleo principale della storia: Aristofane.

Inteso come maligno nemico di Socrate – Telemann lo concepì in taglia di tenore caratterista –  secondo una visione classica che sviliva il grande commediografo ateniese (che sarà rivalutato solo in pieno Ottocento tedesco), Aristofane sparisce, in questo spettacolo. Tuttavia, uscito dalla porta, in qualche modo rientra dalla finestra. Le belle scene di Frank Philipp Schlössmann (un segno grafico a mezza strada tra il Corriere dei piccoli e il cartone animato) propongono infatti, ad ogni alzar di sipario, un cielo azzurrino cosparso da una sterminata nuvolaglia: implicito omaggio a quelle Nuvole aristofanee che rappresentano la più salace satira contro i sofisti e quanti, a cominciare da Socrate, offrivano sapienza a pagamento. Né è questa l’unica citazione, ironica e colta, dello spettacolo. Der geduldige Socrates è anche un omaggio all’opera italiana, e non a caso Telemann preferì mantenere i versi di Minato, senza ricorrere alla traduzione in tedesco, per i brani vocalmente più complessi: un’implicita ammissione di superiorità della nostra musica in ambito canoro. A loro volta, gli autori dello spettacolo giocano dunque sulle citazioni italiane: quando in scena compaiono i personaggi – assenti nel libretto e affidati a due bravissimi figuranti – d’uno scultore e d’un pittore (che devono realizzare l’uno la statua di Rodisette, l’altro il quadro di Edronica) quest’ultimo ha le sembianze di Pasolini nel suo Decameron cinematografico, fascia attorno alla fronte e colori in mano.

Al contrario della lettura registica, l’esecuzione musicale non rende forse giustizia fino in fondo all’eclettismo stilistico di Telemann e, soprattutto, alla varietà coloristica della sua tavolozza: la Händelfestspielorchester – che l’Opera di Halle impiega sia nell’annuale festival haendeliano sia negli altri titoli settecenteschi della stagione – è un complesso “specialista”, come si suol dire, ma con fiati meno duttili e cristallini di quanto si desidererebbe. Wolfgang Katschner, dal podio, imprime però notevole omogeneità all’insieme e valorizza al meglio i cantanti, tutti spigliatissimi e compresi nell’arte del divertire divertendosi. A cominciare dal protagonista Ki-Hyun Park: un basso che non vanta particolari frecce al proprio arco, men che meno in termini timbrici; e, tuttavia, risulta così simpatico, musicale e idiomatico (quando canta in tedesco così come quando canta in italiano) da far convincere davvero che, la sua, sia la voce di Socrate.

Un momento dello spettacolo. Foto di Gert Kiermeyer.
Foto di Gert Kiermeyer.

Resa lode alle due megere (in primo luogo la scatenata Santippe di Anke Berndt, ma l’Amitta di Melanie Hirsch è un’ottima spalla), restano i personaggi patetici: che sono poi quelli vocalmente più ardui e, dunque, autenticamente protagonistici. Lo spettacolo, però, non cade nella trappola di creare una dicotomia tra gli “amorosi” e i “commedianti”. Edronica e Rodisette, benché insignite – soprattutto quest’ultima – di arie inequivocabilmente “serie” vengono dipinte come il pendant aristocratico di Amitta e Santippe: al contrario delle mogli di Socrate sono belle e aristocratiche, ma la vocazione all’accapigliamento e alla sferzata viperina resta tale e quale. Ines Lex (Rodisette) unisce un’allure da primadonna a un aspetto maliziosamente fanciullesco, Marie Friederike Schöder (Edronica) sfoggia una vocalità meno autorevole – ma comunque assai corretta – accoppiata a una fisicità più sensualmente matronale: formano una coppia oltremodo piccante, e si capisce come il povero Melito sia incapace a decidersi tra le due.

Un momento dello spettacolo. Foto di Gert Kiermeyer.
Foto di Gert Kiermeyer.

Quest’ultimo era incarnato con attonita malinconia, ma anche con una sostanziosità vocale spesso ignota ai tenori specializzati nel Settecento, da Michael Smallwood; e a chiudere il quadrilatero provvedeva il dolce e appassionato Antippo en travesti del mezzosoprano Julia Böhme (forse la più pertinente del cast, sotto il profilo stilistico) che, conquistando Edronica, toglie Melito d’imbarazzo e consente la costituzione di due coppie senza strappi. Tutti contornati da comprimari di rango: dal Nicia del baritono Ásgeir Páll Ágústsson (dei recitativi duttilissimi), abbigliato come fosse uscito da un’opera di Lully per sottolineare l’appartenenza del personaggio alla vecchia generazione, a Christopher O’Connor, che plasma con fisicità debordante e voce aguzza da tenore caratterista il ruolo archetipico del servo sciocco. E ad incarnare Cupido nell’Adonisfest non c’è – come prevede la partitura – Rodisette mascherata, ma un bambino: felice infedeltà, perché il piccolo Johannes Morawe è voce bianca intonatissima e priva di qualunque smanceria.


Der geduldige Socrates



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