Il teatro lirico non ha perso la natura di specchio in cui riflettersi, il melodramma dellOttocento può riuscire ancora a raccontare la vita di un paese. È naturale che in Croazia, dove lotte intestine e fratricide attengono a un passato troppo recente per cancellare certi fantasmi, unopera come Il trovatore trovi il proprio cuore drammaturgico nella frase di Leonora «Civil guerra intanto arse»; così come è evidente che, per la prospettiva storica croata, Azucena e la comunità gitana non solo si pongono in antitesi al mondo castellano e militare degli altri protagonisti, ma si fanno portatori dun disagio multietnico e multiculturale capace di trasformare ogni illusorio equilibrio in polveriera. Sotto tale profilo il Teatro Nazionale Croato di Zagabria – forse il più sontuoso tra gli edifici teatrali dellex impero asburgico – festeggia bene il bicentenario verdiano: questo Trovatore che il regista Andrejs Žagars riconduce senza forzature a sempiterni fermenti balcanici è autentico teatro sociopolitico e, verosimilmente, anche Verdi ne sarebbe compiaciuto.
Daltronde, al contrario delle regie concettuali tedesche e di quelle modaiolo-internazionali propinate dalla Scala, lattualizzazione proposta da Žagars non si traduce in un ammodernamento compiaciuto e compulsivo: la recitazione è tradizionalissima (i cantanti sono perlopiù al proscenio, nelle arie il regista li lascia statici per non concentrarli sulla musica) e il presente è più alluso che descritto – sebbene in palcoscenico appaia anche una motocicletta – nella scenografia oltremodo stilizzata di Reinis Suhanovs. Sottopelle, invece, la regia offre spunti fertilmente antitradizionali. Bastano pochi gesti per trasformare Leonora dalla cristallizzata donna-vittima, orgogliosa di essere tale, del nostro romanticismo a un vibratile esempio di sotterraneo masochismo femminile, voluttuoso – più che sublime – nel proprio sacrificio; così come luso non banale di certi oggetti aprono uno squarcio straziante, ma sussurrato, sul dramma di Azucena, di solito tutto sopra le righe: ora un fagotto per neonato, cullato come se la creatura fosse ancora dentro, ora un passeggino irrimediabilmente vuoto.
Pure la lettura musicale si rapporta a una dimensione non scontata, eppure fedele al dettato verdiano: Mihail Sinkevič stacca tempi meno incalzanti e più spaziosi rispetto alla tradizione (nel terzetto del primo atto, ad esempio), ma che sono quasi sempre quelli effettivamente previsti in partitura. Sottratto al mito dellinesausta celerità Il trovatore offre ai suoi interpreti un fraseggio assai più articolato, e i passi corali acquistano uno spessore espressivo che va al di là dellappeal – indubitabile, ma un po logorato dalluso – del coro degli zingari: dai riverberi in “pianissimo” degli armigeri durante il racconto di Ferrando allo sfumato decrescendo conclusivo (teatralissimo contrappasso alla marzialità iniziale) di una pagina allapparenza pleonastica come «Squilli, echeggi la tromba guerriera». Il Teatro Nazionale Croato, daltronde, può contare su un coro eccellente per amalgama, musicalità e idiomaticità.
Siniša Hapač (Il Conte di Luna).
Foto di S. Novkovic
Ai cantanti, avvantaggiati dalla splendida acustica della sala, Sinkevič concede qualche taglio (incluso il “da capo” della Pira), ma meno di quanti se ne trovino in un medio Trovatore nostrano: è raro, oltre che appagante, udire nella sua interezza la cabaletta che segue Il balen del suo sorriso. Dispiace, invece, che il direttore si affidi alla vecchia prassi esecutiva italiana proprio laddove era il caso di discostarsene: nel Finale secondo Manrico qui unisce la sua voce a quella dellincredula Leonora, abbinando un improbabile «Son io dal ciel disceso» al «Sei tu dal ciel disceso» cantato dal soprano; ed è uninterpolazione dantan di cui non si sentiva bisogno. Daltronde, anche i solisti oscillano tra una rimarchevole propensione al canto sfumato e analitico – ma senza tentazioni calligrafiche – e occasionali concessioni alla veterotradizione trovatoresca.
Il più “tradizionale” del cast è, non a caso, lunico italiano: Stefano La Colla, cantante ospite in locandina (il teatro di Zagabria ha una compagnia stabile), è un protagonista di ottimi mezzi naturali, notevole istinto e dizione perfetta. Una voce così “facile” – squillante in acuto, sufficientemente solida al centro – meriterebbe qualcosa di più in termini di musicalità (lappiombo ritmico non è irreprensibile) e di fraseggio, ma questo Manrico quasi pavarottiano per il mezzoforte carezzevole e le smaltature accattivanti pare comunque una bella promessa per il futuro. Mentre, allopposto, le voci meno privilegiate – luna per ragioni anagrafiche, laltra per limiti naturali – di Zlatomira Nikolova e Siniša Hapač danno vita a interpretazioni non altrettanto gratificanti sul piano fonico, ma più compenetrate sul fronte espressivo.
La Nikolova è un nome che non dirà molto al melomane italiano, ma resta una delle star più amate in area iugoslava. Mezzosoprano di ottima estensione e notevole fascino timbrico, interprete grintosa ma mai epidermica, dopo una lunga carriera si è indirizzata verso i ruoli “di carattere” e la sua rentrée come Azucena, festeggiatissima dal pubblico, inevitabilmente mostra qualche crepa nel secondo atto, più oneroso in termini vocali (i trilli di Stride la vampa, il Do acuto del duetto con Manrico…). Nel prosieguo, però, larte della dicitrice sopravanza occasionali diseguaglianze canore: lo dimostra un esemplare terzo atto, dove trascolora con pari espressività dagli affondi introspettivi di «Giorni poveri vivea» allo slancio combattivo di «Deh! rallentate, o barbari». Mentre Hapač, da parte sua, è un Conte di Luna corretto e misurato, rispettoso delle prescrizioni verdiane (onora quei ppp, “dolcissimo” e “diminuendo” che baritoni più grintosi preferiscono omettere), musicale e ben a fuoco nel terzetto del primo atto come nel duetto con Leonora: ed è un peccato che i limiti del registro acuto – lascesa al Sol è assai faticosa – lo rendano deludente nel Balen del suo sorriso.
Siniša Hapač (Il Conte di Luna).
Foto di S. Novkovic
Luciano Batinić imprime al racconto di Ferrando una solida timbratura di basso alternata a mezzevoci spettrali, mentre più debole appare la prova di Adela Golac Rilović, eclettico soprano capace di spaziare in vari repertori, ma che nel Trovatore mostra una voce di esigua proiezione, talvolta ricorrente al falsetto. Lespressiva duttilità dellattrice, peraltro, rende scenicamente accattivante questa Leonora trasformata dalla regia in una ragazza ricca, forse viziata, che si trasforma in crocerossina. Certo, non è un buon segno quando la cavatina della primadonna offre meno suono del pertichino della comprimaria. È quanto accade in Tacea la notte placida: ma qui entra in gioco lottimo materiale vocale dellInes di Kristina Anđelka Đopar. Nelle compagnie stabili, daltronde, interpreti di fianco e protagonisti sono spesso intercambiabili. Lo conferma pure il Ruiz di Mario Bokun: di così squillante piglio tenorile che potrebbe essere un cover per Manrico.
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