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Niente, è solo un trucco

di Elisa Uffreduzzi
  La grande bellezza
Data di pubblicazione su web 28/05/2013  
                                 

Un giornalista con velleità di romanziere si lascia trascinare nella vita mondana della Roma odierna, tra feste in case principesche, nobili decaduti, punture di botulino, cocainomani e politici corrotti. Già la trama, ridotta al minimo indispensabile, rivela evidenti affinità con La dolce vita (Federico Fellini, 1960), a partire dal protagonista, Jep Gambardella (Toni Servillo, attore feticcio di Paolo Sorrentino), figura speculare del Marcello felliniano (allora interpretato da Mastroianni, parimenti interprete cult del regista). L’andamento episodico e la similitudine di numerosi personaggi, se ancora vi fosse qualche dubbio, fanno il resto.

 




 

L’intellettuale suicida, la bambina come figura angelicata, qui negata come l’infanzia che le viene sottratta, il cammeo del cantante-icona (qui Venditti, allora Celentano), la riflessione irriverente sulla sacralità della religione oggi (nelle figure opposte del cardinale e della santa), l’episodio circense della sparizione della giraffa, paradigma di tanta parte della filmografia felliniana (si pensi in particolare al finale di 8 ½, 1963) e la citazione testuale, «oggi ti porto a vedere un mostro marino», completano il quadro della rivisitazione che Paolo Sorrentino realizza de La dolce vita. Come a dimostrare che cambiano i tempi, ma il vuoto dietro alla «grande bellezza» di Roma – e dell’Italia – è sempre lo stesso. E al nostro giornalista non resta che lasciarsi trasportare dalla corrente mondana per le vie della città, come la macchina da presa che carrella lentamente in giro per la capitale, mentre scorrono i titoli di coda.

Girato magnificamente, con una fluidità nei movimenti di macchina e un gusto per il taglio delle inquadrature che raramente si ravvisano in questa misura, La grande bellezza nonostante l’andamento episodico, i tempi spesso dilatati e la mancanza di un vero e proprio sviluppo narrativo, convince per buona parte del suo svolgimento, certo anche grazie al supporto della splendida fotografia di Luca Bigazzi e delle significative scelte musicali – dagli alienanti brani da discoteca a quelli ieratici del repertorio della musica sacra – che contribuiscono all’atmosfera onirica e rarefatta di molte sequenze, riuscendo così a valorizzare le caratteristiche del film, altrimenti a forte rischio di sconfinare nel territorio della noia e del disinteresse spettatoriale. Poi però Sorrentino finisce per girare a vuoto come Jep e anche noi con lui. Quel che ci doveva dire ce lo ha già detto e il film si fa ripetitivo e stanco, pur nella novità degli episodi narrati, fino alla vicenda della suora ultracentenaria, che chiosa «la povertà non si racconta, si vive», recuperando una sintesi di senso.

 




 

Ma non è neanche questo tutto sommato a svilire il film, quanto piuttosto il fatto che l’horror vacui della mondanità contemporanea ce l’aveva appunto già raccontato, più o meno negli stessi termini, Fellini cinquant’anni fa e Sorrentino pecca di non aver cercato un propria via per dircelo. Come se, nell’affrontare una tema ancora così attuale, non fosse riuscito ad affrancarsi dal modello felliniano.

Toni Servillo qui più che mai resta prigioniero della sua maschera, sclerotizzato come quella in un’unica espressione. Sabrina Ferilli interpreta una donna che per lavoro esibisce il suo corpo, biasimata dal padre eroinomane che dubita dell’opportunità di proseguire in quella carriera a più di quarant’anni: non stupisce che riesca a calarsi così bene nella parte. Tra i numerosi volti noti e meno noti chiamati a far parte del cast nei tanti piccoli ruoli di cui si compone, Carlo Verdone se la cava piuttosto bene alle prese con Romano, anche lui scrittore, aspirante drammaturgo impacciato con le donne e specchio deformante del protagonista: se vogliamo un personaggio affine a tanti degli imbranati ai quali ha dato vita nei suoi film.

A chi si chiede cosa resta della grande bellezza, della fastosa finzione messa in scena, Sorrentino risponde citando Céline: «uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. […], nient'altro che una storia fittizia». Una giraffa scompare e… niente, è solo un trucco.




La grande bellezza
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