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La carovana di Luhrmann

di Elisa Uffreduzzi
  Il grande Gatsby
Data di pubblicazione su web 19/05/2013  
                                 

«Che grande circo!» esclama a un tratto tra l’invidioso e il disgustato Tom Buchanan, “ricco di nascita”, lui, di fronte ad una delle sfarzose feste in “casa Gatsby”. L’affermazione si addice perfettamente anche al film di Baz Luhrmann, sontuoso affresco pop che trasforma i ruggenti e dolenti anni Venti dell’omonimo romanzo (1925) di Francis Scott Fitzgerald in un’abbacinante giostra, esaltata dal 3D, al ritmo di hip hop. Che lo stile di Luhrmann sia ben lontano dalle pedisseque e fedeli trasposizioni letterarie in forma cinematografica è cosa nota, almeno fin dai tempi di Romeo + Giulietta di William Shakespeare (1996), ma si pensi anche alla sorprendente Parigi del 1899 ideata per Moulin Rouge! (2001), il cui plot riecheggia più di una trama operistica, nonché quella de La signora delle camelie di Alexandre Dumas. Del resto è proprio questa la sua specificità, ciò che ne fa un regista capace di dividere il pubblico tra ammiratori entusiasti e inorriditi detrattori, comunque di far discutere e destare interesse. Chi scrive si pone a metà strada.

 




 

Luhrmann dimostra di aver ben compreso e messo a frutto le possibilità del digital 3D, fin dalla prima inquadratura del film, dove un mezzo primo piano in effetto silhouette di Tobey Maguire (alias Nick Carraway) ci accoglie aggettante sulla platea, mentre lo sfondo fuori fuoco si allontana sempre più, proprio per effetto della “terza dimensione”. Iperbolici movimenti di macchina dalla cima di un grattacielo o da un aereo, giù in picchiata fino al suolo in plongée ci accompagnano lungo le strade di una New York forse mai esistita, eppure incredibilmente affascinante. Come Nick rimaniamo abbagliati e incantati da tanta opulenza, come lui un po’ nauseati. D’altro canto Luhrmann tradisce la necessità di qualche aggiustamento nella regia in digital 3D, ma confidiamo che con un po’ d’esperienza perfezioni una tecnica già mirabilmente avanzata: nei movimenti di macchina che in quadro presentano contemporaneamente una variazione di messa a fuoco tra primo piano e sfondo – un’espediente giustamente pensato proprio per mettere in risalto il 3D – è sensibilmente fastidiosa la sezione fuori fuoco dell’inquadratura, in particolare quando ad essere sfocata è la porzione di profilmico in avampiano.

Viene spontaneo il paragone con le precedenti trasposizioni del film, per lo meno con l’ultima, quella del 1974, per la regia di Jack Clayton. Allora non era stata tanto la fedeltà al romanzo a restituirne con maggiore efficacia la dimensione emotiva, quanto piuttosto una scelta di sceneggiatura (lì scritta da Francis Ford Coppola!). Qui l’adattamento di Baz Luhrmann e Craig Pearce non difetta nei tagli, al contrario spiega troppo rivelandosi eccessivamente didascalico, laddove lasciando parlare le immagini del film – ben più “potenti” nella nuova versione – tanto maggiore avrebbe potuto essere l’impatto emotivo del racconto.

 




 

Quanto all’opinabile scelta di una colonna sonora improntata all’hip hop, c’era certo modo di costruire  un arrangiamento altrettanto smisurato e trascinante anche rimanendo nei confini del jazz e finanche del soul, se non proprio di un’ambientazione sonora cronologicamente corretta. L’hip hop è una cifra musicale talmente legata alla contemporaneità da inficiare il coinvolgimento spettatoriale nell’atmosfera da scintillante musical del film (che pure non rientra a pieno titolo nei canoni di questo genere cinematografico). D’altro canto si potrebbe obiettare che la scelta di una categoria musicale tanto à la page ha per effetto di far riflettere lo spettatore sull’attualità di certi temi (l’eccessivo consumo di alcol, la ricerca del divertimento ad ogni costo per sfuggire ad una crisi sempre più sfacciata, il pericolo di false ideologie razziali), che minacciano più che mai la nostra attualità.

Leonardo di Caprio nei panni del self-made man Jay Gatsby, per una volta anche grazie alla sua baby face, precipita in una soluzione di fragilità e ostentata sicurezza un risultato impeccabile, che ci ha riportato ai fasti di The Aviator (Martin Scorsese, 2004), dove interpretava un personaggio altrettanto diviso. Accanto a lui Carey Mulligan, recentemente distintasi per la toccante interpretazione in Shame (Steve McQueen, 2011), conferma le proprie capacità in un ruolo ambivalente come quello della ricca e bella Daisy Buchanan, che sceglie consapevolmente di soffocare la propria sensibilità sotto i lustrini e l’agiatezza che le offre l’amato/odiato marito fedifrago. Meno convincente Tobey Maguire: peccato, nonostante il physique du rôle, le limitate capacità espressive del volto impediscono all’ingenuità del suo Nick Carraway di mutare nella disperazione al momento della tragedia. Joel Edgerton nel ruolo di Tom Buchanan aderisce straordinariamente alla descrizione che affiora dal romanzo di Fitzgerald. Scoppiettante, fastoso, coinvolgente, discutibile, incoerente, comunque affascinante, il “grande circo” di Luhrmann anche stavolta trascina in giro per il mondo la sua carovana di effetti speciali, regalando a tutti – estimatori e non della sua personalissima maniera di fare cinema – l’occasione di vedere uno spettacolo che ha tutto il diritto di definirsi tale e il merito di sperimentare. Non è poco.





Il grande Gatsby
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