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Approda a Cannes il primo film di Valeria Golino

di Ilaria Pellanda
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Data di pubblicazione su web 07/05/2013  

 

Si è conquistato una meritata posizione nella sezione “Un certain regard” il bel film di Valeria Golino, ospite in maggio al Festival di Cannes edizione 2013.

Miele non è solo il titolo del debutto cinematografico dell’attrice (e ora regista) italiana ma è anche il “nome di servizio” della protagonista della pellicola. Incarnata da una convincente Jasmine Trinca, Miele ha anche un nome di battesimo, Irene, e una doppia vita.

Irene è una giovane donna solitaria, risoluta e tenera al tempo stesso. Studia all’Università di Padova, dove spesso si reca per incontrare i suoi professori, e divide l’appartamento in cui vive con una ragazza cinese. Questo è ciò che racconta al suo amante Stefano (Vinicio Marchioni), col quale ha una relazione basata soprattutto sul sesso, e a suo padre – rimasto vedovo –, che ogni tanto incontra per pranzare o per giocare a backgammon. In realtà Irene non frequenta più l’Università e la ragazza cinese fotografata con il telefonino è solo un’anonima turista fermata un giorno per strada.

Irene, infatti, è soprattutto Miele, giacca di pelle nera, jeans e sguardo deciso: con due anni di medicina alle spalle, per mestiere aiuta i malati terminali a porre fine alla loro agonia. Non è chiaro per chi lavori la protagonista (forse un piccolo neo di questo coraggioso film). La vediamo periodicamente incontrarsi e prendere accordi con il suo collega Rocco (Libero De Rienzo), partire alla volta del Messico per comprare il farmaco letale – il Lamputal, barbiturico per cani illegale in Italia –, prestare i suoi servizi di attento e discreto “angelo della morte” e quindi sfiancarsi in lunghe nuotate e corse in bicicletta. È a contatto con l’acqua e con il vento, infatti, che Miele torna a essere Irene mentre tenta di riagganciarsi a una vita che sente scorrere in sé solo quando il cuore le batte forte nel petto.

Ma un giorno accade qualcosa di inaspettato: a richiedere il servizio di Miele è Carlo Grimaldi (un affascinante Carlo Cecchi), ingegnere settantenne, cinico, intransigente, colto e riservato, che pur godendo di buona salute ha perso interesse per la vita. La ragazza non lo sa, pensa che si tratti di un uomo molto malato, ma presto capirà che il suo caso è diverso dagli altri finora trattati.

«Una malattia invisibile è un capriccio?», chiede Grimaldi a Miele, che, sconvolta dopo aver scoperto le sue intenzioni («Io non sono un sicario, aiuto i malati!», dice furente all’amico Rocco che le ha passato il contatto) mette a soqquadro la casa dell’uomo alla ricerca della pozione letale che gli ha venduto qualche giorno prima. Da questo incontro/scontro nascerà una relazione, un rapporto affettuoso fatto di avvicinamenti e distacchi che faranno franare le convinzioni che fino a quel momento avevano sorretto Irene nel suo essere Miele.

Il lungometraggio della Golino indaga un argomento scomodo e attuale già affrontato l’anno scorso da Marco Bellocchio in Bella addormentata e da Michael Haneke in Amour, senza alcuna presa di posizione etica, religiosa o politica.

Liberamente ispirato al romanzo A nome tuo di Mauro Covacich, Miele è un film di contrasti e affinità, duro e delicato, cupo e luminoso, un compenetrarsi di atmosfere e sentimenti che la regista riesce a trasmettere con inquadrature mai banali. La cinepresa non pone al centro del proprio occhio i personaggi, ma si muove alla ricerca dei loro gesti e dei loro sguardi. Si pensi – per citare l’esempio più emblematico – al primo piano di Miele, che, mentre sta aiutando un giovane ragazzo paraplegico ad abbandonare una vita oramai insopportabile, ci guarda improvvisamente con occhi disperati, disarmati, che si velano di lacrime.

«Noi dobbiamo essere invisibili», spiega Irene a Grimaldi con il volto rigato dal mascara che cola, «non devono pensare che dopo possiamo tornare a una vita normale. Dobbiamo stare attenti alle parole che usiamo, a non adoperare verbi come “desiderare” e a non palare mai al futuro». Ma questa volta la protagonista non riesce a seguire tutta la procedura, distoglie lo sguardo attento e discreto con il quale era sempre riuscita a sostenere il pesante fardello della morte. Qualcosa dentro di lei si è incrinato e anche lo spettatore sarà chiamato in causa, non potrà più limitarsi ad assistere agli eventi, ma dovrà guardarsi e interrogarsi.

Quest’opera prima dallo stile molto personale, è prodotta da Riccardo Scamarcio e Viola Prestieri e sceneggiata, oltre che dalla stessa Golino, da Francesca Marciano e Valia Santella. La musica non fa mai da sfondo, ma vive e palpita di fotogramma in fotogramma: esce dalle radio, dai televisori, dalle cuffiette che Miele/Irene ha sempre ben “incastonate” nelle orecchie o penzolanti al collo (molto bella la sequenza in cui condivide i suoi auricolari con l’ingegnere) e dagli stereo delle persone che aiuta a morire. E’ infatti proprio lei a consigliare ai suoi “pazienti” e ai loro cari di scegliere le note che li accompagneranno fino al momento del distacco.

Magnificamente silenziosi, sospesi in una dimensione ovattata, sono invece i due rapidi flashback: appaiono e scompaiono, quasi senza che lo spettatore se ne renda conto, e restituiscono le immagini di Irene bambina mentre gioca sulla neve con la sua giovane mamma.

Una nota di merito va alla fotografia attenta ai dettagli dell’ungherese Gergely Pohárnok: la pellicola riesce a catturare in maniera indelebile l’apertura repentina di un sorriso che rimane idealmente impressionato sul nero dei titoli di coda.


Miele
cast cast & credits
 






 
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