Non è infrequente, negli ultimi anni, incontrare a teatro Thomas Bernhard, che pure in Italia è stato introdotto con un certo ritardo grazie ad Adelphi (Perturbamento, del 1967, è stato tradotto e pubblicato solo nel 1981). Oltre a un cospicuo numero di romanzi, lautore austriaco ha composto, nellarco della sua carriera, anche una ventina di commedie che, soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni novanta, hanno suscitato un diffuso interesse tra i nostri teatranti, complici anche i cinque volumi usciti per Ubulibri. Lo stile paratattico e formulare delle pièces, la loro verbosità livida e torrenziale, si prestano infatti facilmente a divenire “terreno di conquista” per larte dellattore, come dimostrano, per restare agli esempi più recenti, Il teatrante diretto e interpretato da Franco Branciaroli o la versione di uno dei testi migliori, Ritter Dene Voss, affidata a “mostri” come Massimo Popolizio, Maria Paiato e Manuela Mandracchia da Piero Maccarinelli (di cui un illustre critico, in quelloccasione, scrisse con spietata ironia che aveva «correttamente scelto di evitare le responsabilità di una regia vera e propria», lasciando carta bianca ai propri interpreti).
In questo contesto potrebbe forse stupire che – pur restando ancora inesplorate diverse opere drammatiche – ci si rivolga, come nel caso qui preso in esame, a uno scritto non concepito per il teatro, cioè il celebre Soccombente, portato ora in scena da Nadia Baldi con Roberto Herlitzka protagonista. Ma in fondo il monologo ricavato dal romanzo attraverso la riduzione di Ruggero Cappuccio – drammaturgo in proprio ed esperto di riscritture e adattamenti – non si allontana poi molto dalle commedie bernhardiane, che il più delle volte sono composte da strutture monologanti nelle quali, anche quando ci si trova di fronte a un dialogo, la comunicazione è di fatto preclusa (basti pensare a Minetti o al binomio Vera/Clara di Prima della pensione). Del resto un altro grande attore, Umberto Orsini, aveva poco prima affrontato con buon successo unaltra impegnativa opera narrativa, Il nipote di Wittgenstein.
Roberto Herlitzka e Marina Sorrenti (Foto di Gabriele Gelsi)
Ma questo Soccombente non si può ridurre a una pur strepitosa prova dattore. Herlitzka infatti, attraverso un tono recitativo perfetto, a un tempo severo e sferzante, introduce lo spettatore nelle dinamiche contorte e dolenti di questo testo profondamente autobiografico, dove viene esposto e vivisezionato il rapporto che ha legato (e vincolato) lio narrante e il suo amico Wertheimer al geniale (e anaffettivo) Glenn Gould. Lincontro con il grande pianista americano, avvenuto a Salisburgo durante un corso di perfezionamento tenuto nientemeno che da Vladimir Horowitz, modifica irreversibilmente il destino degli altri due, che dopo aver ascoltato la celeberrima esecuzione delle Variazioni Goldberg decidono di abbandonare per sempre la carriera musicale. Il protagonista – figura simulacrale dello stesso autore – ci racconta di essere lunico sopravvissuto, dopo limprovvisa morte per ictus di Gould e il successivo suicidio di Wertheimer, tragicamente impiccatosi davanti alla casa in cui è andata a vivere la sorella, colpevole, a suo dire, di averlo abbandonato per sposarsi: giunto a dare lultimo saluto allamico di una vita, lio narrante rievoca mentalmente il proprio passato in un “a solo” di grande intensità. Questa scarna “trama” – in parte sfrondata da Cappuccio dellinvettiva antiaustriaca tipica di Bernhard – è di fatto il pretesto per trattare temi assai cari allautore, e continuamente ricorrenti nelle sue opere, come la disumanità dellarte e della perfezione (il simbolo di entrambe, Glenn Gould, emblematicamente conia per Wertheimer lappellativo di “soccombente”, marchio che condiziona la sua esistenza e lo conduce infine a uccidersi) e più estesamente limpossibilità dellessere umano di stabilire reali relazioni affettive con i propri simili.
Allineluttabile solitudine che ne deriva, descritta dallo scrittore austriaco con la consueta fluvialità e contrappuntata di feroce ironia, Herlitzka presta la duttilità della sua arte interpretativa, che nellarco della lunga carriera gli ha consentito di trovarsi perfettamente a suo agio sia in kolossal come lo storico Candelaio diretto da Ronconi nel 68 – per ricordare solo uno dei moltissimi spettacoli a cui ha preso parte – che in operazioni sceniche più rarefatte e concentrate (su questo versante, sempre a titolo puramente esemplificativo, si citano i due abstracts shakespeariani Examleto ed Exotello dove, con un indovinato montaggio da lui stesso firmato, riassume in sé tutte le parti). E, nel processo di avvicinamento a Thomas Bernhard, non va dimenticata lottima prova di RH, amaro monologo composto su misura per lui (il titolo è formato dalle sue iniziali) da Vitaliano Trevisan, il più bernhardiano tra gli scrittori italiani contemporanei (e certamente uno dei più rappresentativi degli ultimi ventanni).
Un momento dello spettacolo (Foto di Gabriele Gelsi)
Lattore, muovendosi allinterno di una scena piuttosto disadorna, dove trovano posto due leggii, una poltrona, qualche lampadina appesa e poco altro, “offre” il testo accompagnandolo con pochi, significativi gesti e movimenti, che confermano il controllato scorrere della voce, assecondandone impennate e reticenze o, al contrario, divengono discreto e azzeccato controcanto. Il disincanto e loperosa inconcludenza del protagonista, la rinuncia allarte e la rancorosa frustrazione dellamico Wertheimer (che assumono i contorni foschi della violenza nel folle accanimento contro la sorella), il placido, autistico autoisolamento di Glenn Gould dal consorzio civile assumono in scena la forma di una gigantesca e straniante seduta psicanalitica, che non lascia però spiragli a ipotesi terapeutiche, negate anche dalle incisive, angoscianti ambientazioni videografiche di Davide Scognamiglio. Rifuggendo da ogni esteriore esibizione di perizia verbale, tipica di molti dei nostri migliori attori, Herlitzka ci regala un Soccombente amplificato e sconvolgente, oltre che rispettosissimo del testo di partenza.
Qualche perplessità suscitano invece le scelte registiche di Nadia Baldi, a cominciare da quella di introdurre nello spettacolo musiche originali invece che servirsi delle tanto menzionate Variazioni Goldberg, che occupano, insieme al loro esecutore, un ruolo centrale nella parabola decadente e suicida del “soccombente”. Ma non convince soprattutto linserimento di una seconda interprete, la pur brava Marina Sorrenti, cui è richiesto di intervallare la declamazione di Herlitzka inserendovi i numerosissimi «Pensai», «Mi dissi», «Pensai mentre varcavo la soglia della locanda», ecc. ecc. da Bernhard volutamente e incessantemente disseminati in tutto il romanzo. Questi incisi sono un accorgimento stilistico usato dallautore per fingere che tutte le riflessioni contenute nel libro si sviluppino in un brevissimo lasso di tempo, quello che va dallingresso dellio narrante nella locanda al breve dialogo lì avvenuto con la proprietaria: il tutto risulta scaturire, come viene continuamente ribadito, dalle libere associazioni che il pensiero del protagonista crea in un luogo e in un intervallo temporale ben definiti. Separare questi inserti dal convulso flusso verbale di chi racconta sembra dunque piuttosto ingiustificato, oltre che un po pleonastico (come del resto sono anche le azioni compiute dallattrice che, si immagina, alludono ai personaggi femminili tratteggiati nel libro, dalla sorella di Wertheimer alla padrona della locanda). Ma queste osservazioni non inficiano comunque uno spettacolo complessivamente di alto livello, che raggiunge con efficacia e sintesi invidiabili il proprio obiettivo.
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