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Into the Amazzonia

Elisa Uffreduzzi
  Un giorno devi andare
Data di pubblicazione su web 13/04/2013  
                                 

Reduce dalla perdita di un figlio, abbandonata dal compagno, Augusta (Jasmine Trinca), trent’anni, parte per l’Amazzonia al seguito dell’energica suor Franca (Pia Engleberth), alla ricerca di una pienezza di senso che la sua vita non ha più. Lascia a Trento la madre Anna (Anne Alvaro), la cui rassegnazione nel condurre una piatta esistenza ha più a che fare con la depressione che con la serena accettazione: tra il ricordo dell’amato marito, l’angoscia per la situazione della figlia e la dedizione all’anziana madre malata, cerca disperatamente un Dio che non sente più. Mentre Augusta riscopre pian piano la vita “partendo dalle basi” – dalla sua essenza primordiale e istintiva, che avverte più forte e vicina in una favela di Manaus – Janaina (Amanda Fonseca Galvγo), figura a lei speculare, parte per l’Italia, dove trascorrerà un periodo di tempo accanto ad Anna. Augusta è dunque al tempo stesso doppio della madre (anche Anna ha dovuto affrontare la perdita del marito e della figlia, ormai lontana fisicamente e spiritualmente) e di Janaina, ragazza madre, che ha appena perso un figlio e nella quale Anna ritroverà la figlia perduta.

 




 

In una trama semplice ma non scontata, Giorgio Diritti al suo terzo lungometraggio di finzione (Il vento fa il suo giro, 2005; L'uomo che verrà, 2009) mette in campo emozioni forti, attraverso personaggi che si e ci interrogano, sul senso profondo dell’esistenza umana, i suoi moventi, l’identità. Non propone soluzioni: il suo Un giorno devi andare è una tranche de vie, un tratto di strada, forse il più accidentato, senza dubbio uno dei più sofferti per i personaggi che presenta. Eppure ha il sapore del momento di svolta, della fine che già in nuce contiene la rinascita. Un nuovo inizio che non vedremo nel suo compimento, del quale non v’è certezza, solo speranza, secondo una visione lucida e matura della vita.

Diritti insiste sul paesaggio, mostrato nella sua magniloquenza, di natura aspra e selvaggia, la “Natura matrigna” leopardiana – i vermi, le inondazioni – ma anche capace di regalare momenti di sintonia estatica con l’ambiente, come nella sequenza ascetica di un’Augusta eremita sul finire del film. Così anche il bambino venuto dal nulla – figura onirica, incarnazione ideale di quel figlio mai nato – finisce per stagliarsi contro il paesaggio come un prodotto della natura stessa, una delle sue tante manifestazioni di affetto, di madre severa e benevola al tempo stesso, che da “matrigna” trascolora d’improvviso in amorevole e premurosa.

I lunghi carrelli aerei che insistono sul fiume e sul paesaggio disegnano, parallelamente allo svolgersi della trama, il documentario a tratti persino calligrafico di una terra ancora selvaggia, contrapposta alle inquadrature degli interni della palestra iper-moderna del centro cittadino, uguale a mille altre nel mondo, metonimia del consumismo della società globalizzata. Sintesi visiva paradigmatica del film in questo senso si configurano le foto scattate col videofonino da alcuni adolescenti, di una delle precarie palafitte della favela colta nel suo crollo sotto il peso di un’inondazione. In quegli scatti si condensa lo scontro della natura con le aspirazioni al supposto benessere metropolitano.

 




 

Eppure, nonostante la forte emotività sviscerata dal plot e dalla macchina da presa, manca qualcosa: non un finale, che sarebbe anzi stato una forzatura, ma piuttosto lo sviluppo narrativo e interiore dei personaggi, quasi che Diritti e con lui il film, ammaliato dal paesaggio umano e ambientale amazzonico, avesse perso di vista i protagonisti, la loro maturazione interiore, il loro percorso di vita, per mostrarci altro. Questo altro, se da un lato incanta e spaventa con la potenza della natura ferina, dall’altro sottrae sostanza narrativa ed emotiva e arena Un giorno devi andare nella sabbia delle spiagge amazzoniche.

Peccato, la via italiana per Into the Wild (Sean Penn, 2007), pur feconda di buone intuizioni, sembra abortire: manca il tracciato di una traiettoria interiore che porti non tanto al progredire dell’azione – non è l’obiettivo di un film come questo – quanto al percorso di intima crescita dei personaggi.





Un giorno devi andare
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