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Il lavoro è vanità

di Lorenzo Galletti
  L'impresario delle Smirne
Data di pubblicazione su web 19/03/2013  
                                 

Quando il sipario si apre guidato dalle note di una fisarmonica, la prima figura decifrabile nella penombra della scena è la silhouette di un cappio, metafora bidimensionale della fortuna degli attori. E Carluccio, attore napoletano che tenta goffamente il suicidio, è sineddoche della condizione che affligge tutti i suoi colleghi. Inizia così L’impresario delle Smirne adattato e diretto da Roberto Valerio, mettendo subito sul piatto la tragica precarietà della vita degli attori e la comicità con cui il regista sceglie di trattarla. D’altra parte, la «tragedia prende alla leggera più frequentemente della commedia le sofferenze dell’umanità», diceva Brecht.

 

La vicenda è nota: un turco giunge a Venezia per comporre una compagnia di cantanti da condurre nelle Smirne per una ricca tournée; consigliato da quello che oggi chiameremmo un agente (il conte Lasca, apparentemente amico degli attori ma in realtà viscido approfittatore delle loro sfortune),  l’improvvisato impresario diviene il centro delle disperate attenzioni delle “virtuose” e della fame dei lirici. Quando la formazione è ormai completa, l’assegnazione dei ruoli definita e tutti sono pronti per la partenza, il conte annuncia la decisione del turco di abbandonare il progetto lasciando una liquidazione di duemila ducati; di questi soldi Lasca, spacciandosi tutore degli interessi della compagnia, si fa tesoriere, proponendo di investirli in un progetto di “autogestione”. Ai cantanti, messi all’angolo, non resta che accettare.

 


Antonino Iuorio (Carluccio), Roberto Valerio (conte Lasca) e Valentina Sperlì (Tognina).

 
Scritta da Carlo Goldoni nel 1759 per il teatro Vendramin di San Luca, la commedia, seppur rimaneggiata e compressa, mantiene la propria carica critica: tuttavia, se gli strali del poeta erano principalmente indirizzati alle vanità dei protagonisti della scena lirica contemporanea e alle loro esose pretese economiche, quelli del regista si orientano sul modello di produzione dei nostri giorni (del teatro di prosa perlopiù), ostile agli attori, fatto di ristrettezze finanziarie che ne limitano le possibilità, e contaminato dal mercimonio del corpo delle attrici. Soprattutto queste ultime sono oggetto di diffidenza per la loro natura ambigua fin dalle origini del teatro professionistico: Valerio coglie la parabola del loro successo nel punto in cui, da meretrices honestae, sono costrette a vendersi come attrici “disoneste”. E la sua condanna, al di là dell’ilarità che caratterizza tutta la scena nella camera del turco Alì, è evidente e forte.

 

Per il resto non resta traccia del Settecento di Goldoni nei costumi senza tempo di Lucia Mariani e neanche nelle scene: Giorgio Gori divide lo spazio in tre parti sia in altezza che in profondità. L’avanscena, prima locanda poi camera del turco, è chiusa tra due pareti tappezzate di vecchi manifesti cinematografici che ricordano l’opera di Mimmo Rotella. Dietro, collocati su una pedana, tre alti pannelli dalla superficie grezza e dai cromatismi lavici rivelano e nascondono una ad una le camere degli attori e la loro meschinità. Infine il fondale, illuminato alla maniera di Bob Wilson e davanti al quale dondola l’altalena di Alì, crea un bell’effetto di sfondamento in cui lo sguardo facilmente si perde a cercare le fantastiche Smirne.

 


Pierluigi Cicchetti (Pasqualino) e Valentina Sperlì.

 
Al di là della critica – giusta – alla precarietà del sistema spettacolo, l’Associazione Teatrale Pistoiese rimane una delle poche a potersi permettere ben nove attori in scena: non ci sono forse le tante comparse e le professionalità tecniche elencate da Maccario (il poeta di compagnia) in una delle ultime scene e che spaventano l’impresario, ma nove attori sono pur sempre un numero cospicuo per questi tempi. Oltre al buon lavoro di direzione, a Roberto Valerio va un premio per l’interpretazione impeccabile del conte Lasca, fisicamente caratterizzato da una camminata e da uno sguardo che ce lo mostrano in tutto il suo strisciante opportunismo, mentre la voce ben ne lascia trasparire la sottile perversione. Valentina Sperlì (Tognina) e Federica Bern (Annina) sono due perfette antagoniste per il ruolo di prima donna, civettuole, arriviste, esigenti, ma finalmente disperate quanto serve per incastonarsi ottimamente nel disegno registico. Meno brillante Roberta Mattei nei panni di Lucrezia: la sua schiena e le sue lunghe treccine suonate dal bastone di Lasca come un violoncello valgono quanto una foto di Man Ray, ma la sua prova sembra più che altro un esercizio di dizione. Nicola Rignanese disegna un Alì giustamente connotato da forti pulsioni erotiche e fondamentalmente disinteressato al prodotto artistico. Massimo Grigò (Maccario) sa dare qualità alla sua interpretazione a dispetto della quantità, staccando giustamente il proprio poeta dall’originale autobiografico goldoniano e proponendone uno tutto suo, sbandato quanto serve. Non esaltanti le prove di Antonino Iuorio (Carluccio), Pierluigi Cicchetti (Pasqualino) e di Peter Weyel nella parte del locandiere Beltrame.

 

Se le prove degli attori non possono dirsi di livello uniforme, nel complesso lo spettacolo funziona già dalle prime repliche per la buona intesa collettiva, ha ritmo e “personalità”, oltre alla giusta dose di critica politico-sociale brechtianamente malcelata sotto un velo di indispensabile e ben accolto brio. Tanto più in queste occasioni in cui il teatro si racconta per mezzo dei suoi protagonisti, o come nell’Impresario si mette a nudo, rimane però sospesa una domanda che coinvolge trasversalmente tanto Goldoni quanto Valerio: il lavoro è dignità, o soprattutto vanità?


L'impresario delle Smirne
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