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L’occhio dei Dieci

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 11/03/2013  

 

Dopo Simon Boccanegra, I due Foscari: l’anno verdiano di Riccardo Muti prosegue attraverso i dogi delle repubbliche marinare e il Verdi più marcatamente politico. Se Boccanegra è stato un debutto progettato a lungo, I due Foscari segnano per lui il ritorno a un’opera affrontata una sola volta, dieci anni fa, nel tormentato periodo del trasferimento della Scala agli Arcimboldi: una fase della sua parabola artistica concentrata – dopo tanto spendersi per gli “anni di galera” – sui titoli della maturità di Verdi, che lasciò l’impressione d’una rentrée primoverdiana certo ricca di suggestioni, ma meno a fuoco degli Attila, Ernani e Nabucco diretti nei decenni precedenti. Questi Due Foscari all’Opera di Roma si ricollegano invece agli esiti più alti di Muti; e ciò si deve, forse, a un differente punto di vista che ha maturato nel tempo.

 

Se fino a ieri l’urgenza era far cogliere la grandezza anche nelle opere meno accurate, smentendo la retorica del Verdi bandistico, oggi il messaggio di Muti – dettato da un’empatia musicale e una consapevolezza teatrale frutto di quasi nove lustri di militanza verdiana – è un’ideale quadratura del cerchio: il cammino da Oberto a Falstaff è un ramificato, ma unico percorso; le grandi forme si evolvono e talvolta si complicano, ma i loro contrasti espressivi sono ben presenti già nei primi lavori; tra Francesco Foscari e Simone Boccanegra passano lunghi anni d’iter creativo, ma tensione etica e drammaturgia della parola cantata restano inalterate. E gli stessi temi cruciali dei Due Foscari – la vecchiaia, la spoliazione del potere che ne consegue – sono probabilmente più sentiti dal settantenne Muti di oggi che da quello di dieci anni fa.

 

Un momento dell'opera: Francesco Meli. Credits: Silvia Lelli
 

Muti non ottiene qui la splendida coesione raggiunta nel Boccanegra: ne è di ostacolo la sostanziale paratassi dell’andamento dei Due Foscari. Restituisce però tutta la sapienza strumentale dell’opera, e non solo rendendo palpabili i presagi del Verdi che verrà (la fulminante anticipazione del Dies Irae nel preludio) o distillando, ma senza tentazioni preziosistiche, certi trattamenti solistici (ora il clarinetto, ora viola e violoncello) quando è in scena il tenore. È, piuttosto, l’attenzione alla “musica-segnale” che mostra la sagacia della concertazione di Muti: il suo leggere tra le pieghe della drammaturgia musicale con una capacità esegetica quasi da coautore. I due Foscari è opera di Leitmotiv, intesi come reminiscenze senza troppi sviluppi linguistici, e ogni personaggio ha il suo; Muti li evidenzia uno a uno, rendendo finalmente percepibile il quarto protagonista della partitura, anzi forse il protagonista assoluto: quel Consiglio dei Dieci raffigurato dai bassi dell’orchestra, striscianti nelle loro acciaccature. E la cupezza dominante che ne è il corollario – il «colore troppo uniforme» rimproverato da Verdi, col senno di poi, ai Due Foscari – di colpo si converte da monocromia a impasto sommamente espressivo.

 

Anche la regia di Werner Herzog scorge nel Consiglio dei Dieci un Grande Fratello che tutti controlla: nelle sue stanze dogali l’ottuagenario Francesco Foscari è in meditabonda solitudine, ma circondato da larve umane che si appiattiscono lungo le pareti spoglie. Sono i fantasmi della sua vecchiaia? O gli occhi di un contropotere (i Dieci, appunto) che non cessano mai di spiarlo? In un caso o nell’altro, Herzog mostra di sposare il punto di vista – e dunque il dissidio interiore – del vecchio, non del giovane Foscari: al contrario di quelli del padre, i fantasmi di Jacopo (i «mille e mille spettri», Carmagnola con «il suo teschio reciso» in mano) non si vedono mai in scena, restando tutti nel canto del tenore.

 


Un momento dell'opera: Luca Salsi. Credits: Silvia Lelli


Assecondato dalla scenografia semplice e scarna di Maurizio Balò, il regista ricostruisce un Quattrocento veneziano antirealistico ma niente affatto approssimativo, dove la neve che fiocca mostra eloquentemente il gelo che cala sulla vita e i sentimenti, mentre le lastre di ghiaccio che ricoprono il Leone di San Marco evocano con efficacia il congelamento di ogni alternanza politico-sociale. Anche il carnevale suona sinistro: emblema d’un panem et circenses in cui giullari e trampolieri servono a distrarre il popolo dalle nefandezze dei potenti, non a rasserenarlo. Sono flashes che riportano qualche eco della livida visionarietà dell’Herzog cineasta: all’interno, peraltro, di uno spettacolo incanalato sui binari di una sostanziale staticità visiva, rispettosa della musica e funzionale a una lettura “politica”, ma anche misurata. Immemore, insomma, di quella vena lucidamente autodistruttiva che caratterizza il cinema di Herzog.

 

Come avviene da tempo, Muti tende a creare un parco ricorrente di cantanti: non tutti di grande spicco, ma abbastanza duttili per ottenere quell’aderenza psicologico-stilistica che, oggi, gli sta assai più a cuore delle grandi imprese canore. Francesco Meli, Csilla Boross e Asude Karayavuz – qui limitata a un minuto comprimariato, risolto però con un’autorevolezza che non passa inosservata – sono acquisti recenti, ma rientrano ormai a pieno titolo in questa squadra; mentre Luca Salsi è una new entry che, a quel che è dato leggere, riascolteremo presto sotto la guida di Muti: nessuno dei protagonisti arriva a soddisfare tutti i desiderata dei rispettivi ruoli, però il risultato complessivo è di notevole omogeneità.

 


Un momento dell'opera: Luca Salsi. Credits: Silvia Lelli
 

Temperamento più elegiaco lui e più vibrante lei, ma voci entrambe fondamentalmente liriche, sia Meli che la Boross appaiono un po’ sottodimensionati rispetto alla taglia vocale di Jacopo Foscari e Lucrezia Contarini. Meli cerca di mascherare il disagio con un’epidermica gradevolezza timbrica e un piglio tenorile accattivante. Ci riesce, di primo acchito; ma sulla distanza le difficoltà mettono in disordine una voce che, già di per sé, ha problemi di emissione: da mezzevoci talvolta falsettanti a un registro acuto meno sano del resto dell’edificio vocale. La Boross si lascia apprezzare soprattutto perché non bluffa: canta, senza forzature, con la sua voce di soprano lirico, valorizzando un registro medio luminoso e penetrante; qualche tensione in alto e affievolimento in basso non intaccano la gradevolezza, e l’efficacia, dell’insieme.

 

Salsi può contare su uno strumento baritonale scuro, abbastanza robusto e a suo agio nel canto legato, in virtù di una voce ben impostata quanto a sostegno del suono. È un doge forse un po’ troppo giovane, per anagrafe e “vissuto” interpretativo: il fraseggio – corretto e misurato, ma poco incisivo – sembrerebbe confermarlo. Quanto a Loredano, è un personaggio di confine tra l’antagonista di secondo piano e il comprimario di rilievo: un cantante di vaglia rappresenta un ottimo valore aggiunto, chi lascia a desiderare non ha modo di far danno. Luca Dall’Amico è rientrato nella seconda ipotesi.

 

 

I due foscari



cast cast & credits



 
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