Affrontare
lennesima trasposizione cinematografica del romanzo di Lev Tolstoj significa
muoversi su un terreno difficile, col rischio di mettere in piedi un noioso
compendio del romanzo, che porti con sé la polvere delle versioni che lanno
preceduto. Di questo il regista Joe
Wright dimostra di essere pienamente consapevole e scongiura il pericolo
puntando su un allestimento originale e facendo della sua Anna Karenina unanti-eroina,
mostrata nelle sue umane debolezze, imperfetta, incoerente, a tratti cattiva.
Sceneggiato
da Tom Stoppard, autore tra laltro
di numerose pièce, Anna Karenina è
ambientato in un teatro – in realtà più set, costruiti presso gli Shepperton
Studios (Regno Unito) – e più in
generale opta per una forte caratterizzazione teatrale in senso lato. Lungo
tutto il film infatti predomina limpianto coreutico di Sidi Larbi Cherkaoui, chiamato non soltanto a coreografare le vere
e proprie scene di ballo, ma anche a guidare la normale gestualità degli attori.
In questo modo, insieme al set teatrale, è proprio la dimensione coreografica a
funzionare da collante per lintera narrazione, conferendo unitarietà allagire
degli interpreti, nel quale il gusto per le simmetrie e il fluire di un
movimento nellaltro, definiscono un tutto armonioso e molto suggestivo.
Il
risultato dal punto di vista spettatoriale è duplice: se da un lato la dimensione
teatrale e ballettistica comporta una recitazione a tratti molto stilizzata e
dunque lo straniamento dello spettatore, dallaltro ciò permette a Wright di
isolare le scene chiave, che attingono al contrario a una recitazione
naturalistica, caricandosi dunque per contrasto di ulteriore pathos e favorendo limmedesimazione
dello spettatore. In altre parole il regista riesce così a guidare il pubblico,
spingendolo ad empatizzare con i personaggi solo nei momenti topici del racconto.
Alla
linea narrativa principale – quella della passione fedifraga tra Anna e il
conte Vronsky, si contrappone lamore puro di Levin e Kitty, questi ultimi
incarnazione dellaffetto coniugale, che trova nella semplicità del quotidiano
il suo appagamento. Le due storie sono contrapposte anche sul piano visivo:
mentre laffaire amoroso Anna/conte Vronsky
è relegato negli interni teatrali, sintomaticamente Levin e Kitty respirano nel
più ampio orizzonte dellambientazione in esterni. In tutta evidenza si tratta
di unefficace metafora visiva del funesto destino riservato alla storia senza
futuro dei due amanti peccaminosi, in contrapposizione al roseo futuro cui sono
destinati Levin e Kitty. Non vi è però alcun intento moralistico: se non in
Tolstoj, di sicuro non per Wright. La location
teatrale circoscritta testimonia della chiusura su se stessa dellélite che
circonda Anna e il suo amante, disposta ad accettare linfedeltà coniugale
fintanto che si cela dietro le apparenze, ma non quando esce orgogliosamente
allo scoperto, in nome di una libertà di sentimenti inconcepibile. Per
lipocrita aristocrazia della Russia imperiale di fine Ottocento, viene detto
esplicitamente, è accettabile infrangere la legge, ma non le regole. Analogamente
il morigerato amore di Levin e Kitty non risponde ad un intento prescrittivo e
moralizzante, ma è piuttosto teso a svelare la caduta delle illusioni, il
venire a patti con la realtà: entrambi scoprono lamore al di là dellidealizzazione
iniziale. Rispetto alla loro storia, quella di Anna e il conte Vronsky, pur
occupando quantitativamente uno spazio maggiore, passa in secondo piano, rivelando
inaspettatamente Levin e Kitty come i veri protagonisti: prova ne è il fatto
che a una scena chiave come quella della morte di Anna non è riservato lo
spazio e lenfasi che ci aspetteremmo ed essa resta un momento del film sottovalutato.
La
scenografia teatrale architettata per il film, lungi dallessere povera e
riduttiva, funziona come una sorta di caleidoscopio, che in uno spazio minimo
sveli forme sempre nuove: se dietro le quinte sintravedono muri scalcinati, parallelamente,
grazie al montaggio, porte che si aprono su esterni inattesi e altri set in
interni, realizzano un “teatro impossibile”, creando un palcoscenico potenzialmente
infinito. Sul palco, sfondi e oggetti di scena a tratti risentono di evidenti reminiscenze
della scenotecnica secentesca dei teatri di corte. Del resto il ricorso
allambientazione teatrale traduce iconograficamente la finzione scenica di unaltra
corte: quella dellaristocrazia della Russia imperiale che si apprestava a
scomparire, tesa a mascherare ipocritamente le sue forti contraddizioni interne,
attingendo alletichetta dellalta società francese.
Gli
splendidi costumi, giustamente valsi lOscar a Jacqueline Durran – sono il risultato di unoriginale connubio tra
la moda del secondo Ottocento e quella degli anni cinquanta del secolo scorso –
collaborano alla resa visiva delluniverso psico-sentimentale del film: sintomaticamente
Anna indossa un abito nero quando recita il ruolo della brava madre di
famiglia, mentre ne indossa uno bianco quando esce da quel personaggio, per
recuperare una femminilità fortemente volitiva, ferina, da femme fatale in ultima analisi. Quel candore conseguito a dispetto
della morale pubblica, suggerisce che la purezza per lei è una conquista e non
uno stato primigenio dal quale si può (de)cadere. Sta nellonestà delle sue scelte
piuttosto che nellipocrisia della società che la circonda e la condanna.
Costantemente
soggette a revisione e adattamento lungo la lavorazione di Anna Karenina –
segno questo di una stretta collaborazione con regista e coreografo – le
musiche di Dario Marianelli assumono
una funzione particolarmente significativa nel film, accompagnando sia le
coreografie vere e proprie, che la gestualità coreutica “subliminale” che
pervade lintera narrazione. In questo modo il film, sebbene non sia cantato,
si configura come una sorta di “musical in forma diluita”, che invece di
condensare in numeri circoscritti la performance
più spettacolari, distribuisce musica e danza lungo tutto il suo svolgimento.
Una formula, questa, assimilabile a quella riscontrata ne Les misérables (Tom Hooper, 2012), dove tutto il film è recitato
cantando, senza soluzione di continuità.
Keira Knightley offre
uninterpretazione matura dellambivalente carattere della protagonista, tesa
tra la passione carnale, lamore materno e lammirazione per lintegerrimo
marito Karenin. Questultimo ha il volto di Jude Law, qui spogliato dellaura divistica per apparire stempiato,
nei panni di un uomo rigido, che lascia soffocare la propria sensibilità dalle
convenzioni sociali. Al loro fianco un cast di nomi noti, come Emily Watson, Aaron Taylor-Johnson,
ecc.
Da
Keira Knightley ai produttori, fino alla scenografa e allarredatrice, molti
sono i collaboratori abituali di Wright, cui il regista ha voluto ricorrere
ancora una volta, confermando così una concezione teatrale del film anche in
sede di lavorazione, comportandosi come se si trattasse di una compagnia
drammatica.
Dal
punto di vista delle riprese si riscontra una spiccata fluidità della regia, che
nei movimenti della macchina da presa aderisce alla coreografia visiva del film
scivolando da uninquadratura a allaltra con singolare scorrevolezza e
ricorrendo al piano-sequenza. Si pensi alla vestizione iniziale di Anna nel suo
boudoir, con la cameriera che la
veste girandole intorno, mentre lei non stacca gli occhi dalla lettera del
fratello e la macchina da presa le gira attorno insieme alla domestica.
Esteticamente molto gradevole e sorprendente, il film di Joe Wright non riesce
a coinvolgere più di tanto lo spettatore, prevalendo piuttosto lo straniamento
che comportano ambientazione e recitazione stilizzata, questultima prevalente.
Resterà deluso chi sperava nellennesima disperata rivisitazione delle vicende
delleroina romantica.
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