Il destino di molti grandi rivoluzionari è quello di morire conservatori: accadde a Gogol, che dopo aver scompaginato parametri e certezze della narrativa russa volle distruggere, convinto della peccaminosità del proprio genio letterario, la seconda parte delle Anime morte; ed è accaduto – tra gli altri – a Rossini, a Giuseppe Gioachino Belli, ad Alberto Sordi. Chissà se è per questo che, nel mettere in scena Il naso, Peter Stein ha scelto la via di un aureo accademismo visivo: preciso come un meccanismo a orologeria nellimpaginare i movimentatissimi tableaux che senza requie cadenzano lopera, e impeccabile nelle citazioni iconografiche, ma tuttaltro che eversivo.
Daltronde, mettendo in musica la fulminante novella gogoliana, Šostakovič (altro innovatore poi rientrato nei ranghi della tradizione benpensante: ma nel suo caso cera da fare i conti con le direttive estetiche del Partito…) si guardò dallarpeggiare su tutta la tastiera del comico, scandagliato in ogni sua infinitesimale possibilità, come appunto aveva fatto Gogol: preferì la strada dellestraniamento “formalista”, e tentare lossimoro di una musica fondamentalmente “seria” applicata alle più surreali situazioni grottesche. Sotto questo profilo Stein serve meglio Šostakovič che la fonte letteraria: e dunque, in questo, la sua è una regia molto musicale.
Un momento dell'opera. Credits: Luciano Romano
Langoscia onirica di Gogol si addice poco al teatro lirico (la sapienza strumentale di Rimskij-Korsakov e la squisitezza formale di Caikovskij anestetizzarono lappeal sulfureo delle Veglie alla fattoria di Dikanka), ed era forse inevitabile che per il giovane Šostakovič Il naso fosse, in primo luogo, un esercizio di stile. Se lo spettacolo di Stein – approdato a Roma dopo il debutto a Zurigo – ha un limite, è proprio questo: essersi fermato a quel “in primo luogo”, senza scandagliare gli altri traguardi dellopera. La realizzazione del grande regista tedesco e dei suoi collaudati collaboratori (Ferdinand Wögerbauer per le scene, Anna Maria Heinreich per i costumi, Joachim Bart per le luci e lo stuolo di mimi-danzatori coordinati dalla coreografa Lia Tsolaki) è di esaustiva sapienza teatrale, ma si esaurisce, appunto, nella dimensione dellottimo esercizio stilistico: futurismo, astrattismo e avanguardie russe, dalle casette sbilenche di Mejerchold alle turbanti geometrie di Malevič, vengono miscelati con eleganza e senza cerebralismi, restituendo il clima di unepoca; cè perfino – leggermente postdatato – un riferimento a Tempi moderni, con lincombente ingranaggio meccanico, proverbiale di quel film, che sembra stritolare il protagonista della novella di Gogol non meno dellomino chapliniano. Latitano però, nella messinscena, laffondo della vera deformazione caricaturale e il gusto per unacidità disturbante, ma fertile: sono aspetti che Šostakovič non ignora.
Un momento dello spettacolo. Credits: Luciano Romano
Il direttore Alejo Pérez è un ottimo interprete del Novecento storico, ma per esprimersi al meglio avrebbe bisogno di orchestre in autentica empatia con questo repertorio: lorchestra dellOpera di Roma, grazie al sodalizio con Muti, è cresciuta in modo decisivo sotto il profilo della bellezza e ampiezza del suono, ma non ha quelladdestramento alle forzature timbriche e alla spigolosità melodica necessarie per uno Šostakovič davvero idiomatico. Il risultato è una lettura musicale notevole per puntualità e precisione, ma niente affatto scoppiettante, daltronde in perfetta coerenza con il rigore formale della lettura registica. Il coro, ottimamente istruito da Roberto Gabbiani, risponde meglio dellorchestra: il versante più riuscito dellesecuzione è proprio linesausta poliritmia che caratterizza le parti corali, anche perché – contemporaneamente – la regia di Stein manovra benissimo quellanimazione caotica delle scene di massa che, di tali trattamenti poliritmici, è il naturale pendant visivo.
Credits: Luciano Romano
Il cast è mastodontico (la dramatis personae individua unottantina di personaggi, anche se molti cantanti si fanno carico di più ruoli e i comprimariati davvero minori sono concepiti per artisti del coro), ma gli interpreti che sinsinuano nella memoria sono pochi: e non è la spia duna complessiva modestia della locandina, ma del fatto che il trattamento vocale di questopera – una linea di frontiera tra canto declamato e recitazione intonata – non consente significativi primi piani. Il baritono Paulo Szot è comunque un protagonista capace di trascolorare efficacemente dalla fatuità allangoscia; il basso Alexander Teliga (il barbiere Ivan Jakovlevic: un Figaro ubriacone, umiliato e offeso) coniuga imponenza vocale e duttilità di fraseggio; il tenore Alexey Sulimov zoppica un po alle prese con una tessitura grottescamente acutissima; la veterana Elena Zilio – in confidenza con il repertorio russo da quando, una quarantina danni fa, era il più richiesto zarevic en travesti del Boris Godunov – tiene alta la bandiera italiana, pennellando la matrona pietroburghese Pelagia Podtočina con licasticità della caratterista di classe.
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