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Qualcosa è andato perso

di Elisa Uffreduzzi
  Flight
Data di pubblicazione su web 01/02/2013  

Il Comandante Whip Whitaker (Denzel Washington) è reduce dall’ennesima notte di bagordi tra un volo e l’altro, quando “fatto” d’alcol e droghe si mette alla guida del SouthJet 227 per quello che dovrebbe essere un volo di routine e che invece si trasforma in un incubo che di ordinario non ha proprio niente. Un atterraggio di fortuna da esperto pilota qual è lo rende un eroe agli occhi della folla, la stessa che poco dopo gli punterà il dito contro, del resto si sa, il pubblico è volubile. Fin dalle prime inquadrature è chiaro che Whip, a dispetto dell’uniforme che indossa, è tutt’altro che un individuo esemplare e in questo senso si configura come un antieroe; tuttavia, nonostante le sue debolezze, dopo pochi minuti di film lo vediamo protagonista di una mirabolante impresa, su quel volo da Orlando ad Atlanta, col quale riporterà a casa 96 dei 102 passeggeri a bordo. Folle criminale o supereroe dei giorni nostri? Forse un po’ tutti e due.

Dopo il felice exploit nel cinema d’animazione in digitale, nel quale ha padroneggiato il motion capture (da Polar Express, 2004 a La leggenda di Beowulf, 2007 e A Christmas Carol, 2009), il regista Robert Zemeckis mette a frutto l’esperienza maturata nelle riprese in digitale con  interpreti in carne ed ossa: tra action movie, thriller e dramma psicologico-sentimentale, Flight vanta un plot semplice nello svolgimento, eppure complesso, per il percorso umano intrapreso dal protagonista. A ben guardare infatti quello che di primo acchito sembrerebbe l’ennesimo film imperniato su un disastro aereo, è in realtà la storia del cammino di redenzione di un uomo che ha toccato il fondo, letteralmente. Se la lunga e spettacolare sequenza iniziale dell’atterraggio rimanda ai codici espressivi del film d’azione e il parallelismo tra le vicende di Whip (alcolizzato e cocainomane) e la tossicodipendente Nicole, definisce con sempre maggior precisione i contorni di un dramma esistenziale, qua e là si trovano disseminate come indizi scene che rendono “thrilling” la narrazione. Oltre al progressivo emergere dei “lati oscuri” di Whip, che ne fanno un personaggio sempre meno rassicurante e sempre più simile al protagonista di un thriller, vi sono infatti alcune scene che virano esplicitamente al “giallo”: si pensi a quella in cui il Comandante Whitaker in ospedale fa visita al copilota malconcio, inquietante per l’atmosfera di esaltazione religiosa che descrive o alla scena, verso l’epilogo, nella quale lo stesso Whitaker si lascia tentare dal minibar dell’hotel; in essa la bottiglietta in dettaglio viene improvvisamente agguantata da una mano – la sua – proveniente dal fuoricampo, attingendo dunque direttamente ai codici espressivi del thriller.




Nella stessa direzione va la regia di Zemeckis quando ricorre alla steadycam per tradurre in immagini lo stato di alterazione dei personaggi, come nella sequenza iniziale, quando Whip lascia la stanza dell’hotel: non appena varcata la soglia è l’uso della steadycam unitamente a un’inclinazione lievemente fuori asse della macchina da presa, a svelare la scarsa lucidità del pilota, nonostante le apparenze, instaurando così un clima sottilmente ansiogeno. La stessa tecnica torna a più riprese nel film, spesso in associazione al protagonista, quasi ne fosse una cifra stilistica, chiamando la sua visione distorta a deformare anche la nostra.

Denzel Washington, candidato all’Oscar (2013) per il miglior attore protagonista, si esibisce in un’ interpretazione molto convincente, alle spalle della quale si avverte l’approfondito lavoro di studio e introspezione psicologica del personaggio, sotteso alla costruzione della parte, pur sapientemente dissimulato dietro la microfisionomia della recitazione naturalistica. Fa da contraltare a un ruolo drammatico così chiaroscurale, John Goodman nei panni del pusher Harling Mays: una vera chicca per i fan dell’attore, che lo apprezzeranno in un ruolo debitore delle atmosfere de Il grande Lebowski (Joel e Ethan Coen, 1998). Bravi anche i comprimari Kelly Reilly (la sofferente tossicodipendente Nicole Maggen) e l’attore canadese Bruce Greenwood (Charlie Anderson, il responsabile del sindacato dei piloti); quest’ultimo in un ruolo da caratterista, quale quello del vecchio amico di solida integrità morale.

Il direttore della fotografia Don Burgess, collaboratore di Zemeckis di lunga data, ha saputo condurre egregiamente sia la concitata sequenza del disastro aereo, sia le scene più intimiste, passando da una modalità all’altra senza soluzione di continuità e conferendo dunque omogeneità all’aspetto visivo del film, nonostante i vari registri narrativi coinvolti.

La colonna sonora oltre alle musiche di Alan Silvestri, vanta un’ottima playlist di brani rock e blues, tra i quali spicca la splendida Ain’t No Sunshine di  Bill Withers, in una delle scene-chiave del film.




Nato da un progetto a lungo elaborato dallo sceneggiatore John Gatins, Flight, pur contando su un ottimo cast sia attoriale che tecnico, precipita dopo solo pochi minuti di volo, quelli del rocambolesco atterraggio. Difatti i principali motivi dello svolgimento sono già esauriti in poche sequenze: ci è già stato presentato il personaggio nella sua ambiguità e sappiamo che nonostante tutto è un eroe, se tale è chi compie gesta valorose. Di qui in poi il film si avvita su se stesso, ripetendo ossessivamente la stessa cantilena fino alla conclusione. Certo si dirà che l’insistenza è giustificata dal comportamento recidivo di Whip, incapace di uscire dal pantano di vizi e menzogne nel quale è finito; in altre parole che è la condotta del personaggio a determinare quella del racconto. Ma la narrazione cinematografica ha un dovere di sintesi dal quale può essere esonerata soltanto laddove la sua mancanza sia compensata da atmosfere rarefatte e intimiste o da una sceneggiatura verbosa e concettosa – si pensi a tanto cinema francese – che di quel tipo di atmosfere faccia le veci, sia pure in modo ridondante e discutibile. Qui invece alla sintesi richiesta dal film d’azione si affianca il mulinello dei reiterati comportamenti deviati del protagonista: ne deriva l’inevitabile cortocircuito. A ciò si aggiunga lo sfacciato moralismo che atterra il finale, con tanto di sermone del pentito Comandante Whip di fronte ai compagni di cella. Il risultato è un ampolloso e rassicurante film disneyano, il racconto di una storia di riscatto, perfetta per il periodo natalizio.

A quanto pare Flight incontra le stesse difficoltà del SouthJet 227: dopo un decollo turbolento ma tutto sommato stabile e un viaggio piatto e noioso, finisce per precipitare e nel tentativo di salvare il salvabile, “qualcosa” va inevitabilmente perso, sei vite per il SouthJet 227, il plauso del pubblico per Flight.





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